Alza il rapido giro arbori, e glebe,
E van per l’aria come havesser l’ali,
Tutti inalzano al cielo intorno à Thebe
I rustici, gli aratri, e gli animali.
Le più debili case de la plebe
Cadono addosso à miseri mortali,
E fu ben forte quel palazzo, e duro,
Che restò da tant’impeto sicuro.
La superbia d’Europa, che vuol porre
L’effigie di colei nel patrio monte,
Comincia con più forza il fiato à sciorre
Contra l’opposto al suo corso orizonte,
E ’l marmo di colei, che ’l mondo abhorre,
Ha già spinto nel ciel di Negroponte.
Contrastan gli Euri, e l’infiammata guerra
Le selve, i tempij, e le cittadi atterra.
L’Occidental possanza ogn’hor rinforza
De figli superbissimi d’Astreo,
E passano Eubea tutta per forza,
E portano colei su’ l mare Egeo.
La squadra Orientale anchor si sforza
Scacciar da l’Asia il marmo ingiusto, e reo,
E mentre sopra il mar l’un l’altro assale,
Fan gir fin’à le stelle il fuso sale.
Favonio havria per por ne l’Asia il sasso,
Da Thebe fatto ’l gir verso Andro, e Tino,
Ma vuol, che drizzi à la sua patria il passo
Ver Greco à quanto il torbido Garbino:
E già fa l’Aquilon parer più lasso,
Ch’à la statua impedir cerca il camino,
Già mal suo grado altero, e pertinace,
Ver l’isola di Scio drizzar la face.
Il rapido girar, ch’in aria fanno,
Tiran per forza in su le maggior navi,
Et à l’altissimo ethere le danno,
Anchor che sian di merci onuste, e gravi.
Altezza in lor le Cicladi non hanno,
Che ’l mar non le soverchi, e non le lavi;
I vortici de venti ne lor grembi
Portano un’altro mare in seno à nembi.
Nel più profondo letto il romor sente
L’altiero Dio, che ’l mare have in governo,
E mostra il capo fuor co’l suo tridente,
E parla à quei, che fan l’horribil verno;
V’arma tanta fiducia, empi la mente,
Che dobbiate il mio nome havere à scherno,
Per havervi vestito il volto humano
La superba prosapia di Titano.
Detto havria loro anchor, dite al Re vostro,
Che l’imperio del mar non tocca à lui,
Ma ’l tridente, e ’l marin governo è nostro,
E che ’l concesse già la sorte à nui:
Regga egli in quei gran sassi il sasseo chiostro,
Dove imprigiona à tempo i venti sui,
Quivi chiuda d’Astreo l’altero figlio,
Quivi possa il suo imperio, e ’l suo consiglio.
Ma à pena egli dà fuor le prime note,
Che l’impeto de venti con tal forza
Le tempie, il volto, e ’l tergo gli percote,
Ch’à ritornar nel cupo mar lo sforza.
Tre volte fuor de l’aggirate rote
Vede portar l’immarmorata scorza,
E tre volte và giù, ne vuol per sorte,
Ch’il lor giro il rapisca, e in aria il porte.
Sparse l’alme Nereide il verde crine
Nel più basso del mare atro soggiorno,
Plangon l’irreparabili ruine,
Che struggono il lor regno intorno, intorno.
Portuno, e l’altre deità marine
Non pensan più di rivedere il giorno,
Ma che sian giunti i tempi oscuri, e felli,
Che ’l Chaos, che fu già, si rinovelli.
Strugge il furor, che l’Occidente spira,
Ovunque hà imperio la contraria parte,
E fa, che ’l primo mobile non gira,
E più veloce andar Saturno, e Marte.
Giove saper vuol la cagione, e mira
Tutte l’opre terrene in aria sparte,
E buoi, pesci, et aratri, e sassi, e travi,
E in mezzo al foco star l’onde, e le navi.