Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/208


libro

Tosto, che ne le figlie amate, e morte
     Ferma la madre misera la luce,
     E i dolci, e i cari suoi figli, e consorte
     Vede giacer distesi, e senza luce:
     Lo stupor, e ’l dolor l’ange si forte,
     Che più per gli occhi suoi Febo non luce.
     E lo stupore in lei si fa si intenso,
     Che stupido rigor le toglie il senso.

Il crin, che sparso havea pur dianzi il vento,
     Hor se vi spira, ben mover non puote,
     Stassi ne’ tristi lumi il lume spento,
     Le lagrime di marmo ha ne le gote.
     Il palato, la lingua, il dente, e ’l mento,
     Il core, il sangue, e l’altre parti ignote
     Son tutti un marmo, e si di senso è privo,
     Che l’imagine sua null’hà di vivo.

Da ragionar materia al mondo offerse
     L’estirpata prosapia d’Anfione.
     E contra Niobe ogn’un le labra aperse,
     Che troppa hebbe di se presuntione.
     Ma quasi il mar, la terra, e ’l ciel disperse
     L’orgoglio de l’Eolia regione,
     Per quel, ch’Euro, Volturno, e Subsolano
     De la moglie parlar del Re Thebano.

Poi ch’à la mensa d’Eolo assai parlato
     Fu de figli incolpevoli, e di lei,
     E da tutti il suo orgoglio fu dannato,
     Ch’osò di far se pari à sommi Dei:
     Il vento Oriental tutto infiammato
     Forse da soavissimi Liei,
     Questa parola ingiuriosa, e sciocca
     Si lasciò con grand’ira uscir di bocca.

Troppo è superbo, troppo si presume
     Questo popol d’Europa altero, et empio,
     Poi ch’osa torre al già beato Nume
     I sacrificij, i sacerdoti, e ’l tempio.
     E ben perduto havea l’interno lume
     Costei, degna di questo, e maggior scempio,
     Poi c’hebbe ardir di comperarsi à quella,
     Che diede al mondo il Sole, e la sorella.

E del ciel maravigliomi non poco,
     Che ’l motor, che la sù regge la verga,
     Non dia tutta l’Europa à fiamma, e à foco,
     E co i folgori suoi non la disperga,
     E non le tolga il giorno, e ’l proprio loco,
     E nel più alto mar non la sommerga,
     Si che per l’avenir non parturisca
     Chi tanto si presuma, e tanto ardisca.

Non potè sopportar Favonio altero
     L’insolente parlar del suo fratello,
     Ne che ’l popol del suo superbo impero
     Empio nomare osasse, e à Dio rubello:
     Da giovane tu parli, e da leggiero,
     Gli disse con un sguardo oscuro, e fello,
     E danni la mia patria ingiustamente
     Più devota, e più pia de l’Oriente.

Biasmando l’alme mie, le tue condanni,
     Perche colei, c’hebbe Latona à sdegno,
     Fu data al giorno, et à gli humani affanni
     Da la Frigia ne l’Asia entro al tuo regno.
     Se le vestì la Frigia i terrei panni,
     In Thebe fe l’atto profano, e indegno,
     (Diss’Euro) e apprese à disprezzar i Numi
     Da gli alteri d’Europa empi costumi.

Dissero allhor Favonio, Africo, e Coro,
     Che senton da si barbare parole
     L’Occidente biasmar la patria loro,
     La patria, ch’ogni sera alberga il Sole;
     Perche possa veder lo Scita, e ’l Moro,
     Che ’l marmo, che co’l pianto anchor si dole,
     Da l’Asia hebbe il primier manto terreno,
     Facciamla andar per l’aria al patrio seno.

E cosi salverem con forza ultrice
     L’honor de la contrada Occidentale,
     E ogn’un vedrà, che l’Asia è la radice
     Del dispregio celeste, e d’ogni male.
     Sorride allhor Volturno, et Euro, e dice;
     Se ’l nostro irato soffio il marmo assale,
     Farem veder la statua di colei
     Sù i monti d’Occidente Pirenei.