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libro

Del popolo il dolor, del mal la fama
     Di Niobe à l’infelici orecchie apporta,
     Che la succession, ch’ella tant’ama,
     Giace su l’herba insanguinata, e morta.
     Subito pon la sconsolata, e grama
     L’addolorato piè fuor de la porta.
     E ’l padre, che l’intende, e à pena il crede,
     Anch’ei vi pon lo sventurato piede.

Come la madre infuriata arriva
     A l’infelice Martial diporto,
     E ne la prole sua pur dianzi viva,
     Vede il lume del giorno esser già morto,
     Resta d’ogni virtù del senso priva,
     Lo splendor vien del volto oscuro, e smorto,
     E tramortita presso à i figli cade
     Su le vermiglie, e dolorose strade.

Non tramortisce il misero Anfione,
     Se ben si duol, che l’animo hà più forte,
     Ma del pugnal la punta al core oppone,
     E di sua propria man si dà la morte.
     De le figlie del Re, de le persone,
     Ch’arbitre hor son di cosi crudel sorte.
     Piange l’huomo, e si duol con basse note,
     La donna alza le strida, e si percuote.

Con acqua fresca, et altri aiuti in vita
     Cerca tornar la dolorosa gente
     La Regina distesa, e tramortita,
     E dopo alquanto spatio si risente,
     E stride, e corre, e dove il duol l’invita,
     Chiama questo, e quel figlio, che non sente.
     Ne piange men la disperata madre
     Lo sposo morto suo, de morti Padre.

Ahi quanto questa Niobe era lontana
     Da quella Niobe, c’hebbe ardire in Thebe,
     Di scacciar ver tre Dei folle, e profana
     Dal divin culto i nobili, e la plebe.
     Questa, c’hor miserabile, et insana,
     Vinta dal gran dolor vacilla, et hebe,
     Invidiata già da più felici,
     Hor da mover pietà ne suoi nemici.

Mostra la passion, che l’ange, e accora
     Con parole insensate, e indegni gesti,
     Hor sopra i figli, hor sopra il padre plora,
     E trova, e bacia, e chiama hor quelli, hor questi.
     Ogni empia, ogni profana al fin dà fuora
     Bestemmia contra i Lumi alti, e celesti,
     E rivolgendo gli occhi irati al cielo,
     Cosi danna la Dea, che regna in Delo.

Qual si sia la cagion, che t’habbia mossa,
     Ó trista invidia, ò vendice desio,
     Latona empia, e superba, à render rossa
     Quest’herba, e questi fior del sangue mio,
     Ingiustissima sei quanto si possa,
     Poi che sceglier non sai l’empio dal pio,
     Qual ragion danna il sangue de miei figli
     A fare à questi prati i fior vermigli.

S’invidia havevi à me de la mia prole,
     Si regia, si magnanima, e si bella,
     Dovevi contra me l’acceso Sole
     Mover con la pestifera sorella.
     Ver questa sventurata, c’hor si dole,
     Dovean tirar la freccia ingiusta, e fella,
     C’havriano à l’invidiata i giorni sui
     Tolti, e gli honor senza far danno altrui.

Se desio di vendetta à cio ti spinse,
     Ingiustissimo sdegno il cor t’accese,
     Che ’l figlio mio la tua vendetta estinse,
     Ch’innocente, e leal mai non t’offese;
     E se pur la mia gloria ti costrinse,
     Dovevi contra me volger l’offese,
     Ch’in tutto ingiusto, è chi vendetta prende
     D’un, che si stà in disparte, e non offende.

Ecco hai pur tutto havuto il tuo contento,
     Satiati del mio pianto, e del mio duolo,
     Poi ch’in mio danno il vital lume hai spento
     Dal primo insino à l’ultimo figliuolo.
     Godi da poi, che più spirar non sento
     Per dargli il mio bel regno, un figlio solo,
     Ridi vedendo i miei gioiosi luoghi
     Mostrare il lor dolor con sette roghi.