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E faccia pur l’estremo di sua possa,
     Con l’arme di Pandora, e di Bellona,
     Non sarò mai si povera, e si scossa,
     Com’ è la vostra misera Latona,
     E quando ingombri anchor l’ottava fossa
     L’illustre germe de la mia corona,
     Non m’aveggio però, che tanto io caggia,
     Che più figli di lei sempre non haggia.

Togliete al vostro volto il verde alloro,
     Ch’in cosi vano error v’orna le tempie,
     Togliete à queste mura i razzi, e l’oro,
     Taccia ogni suon, che l’aria assorda, et empie;
     Taccia de Sacerdoti il sacro choro.
     Ogni uno il dir de la Regina adempie.
     Contra sua voglia ogn’un lascia, e interrompe
     Le venerande, et imperfette pompe.

Ma non resta però, ch’entro col core,
     E con tacito mormore non faccia
     À la figlia di Ceo la turba honore,
     Anchor, che le parole asconda, e taccia.
     Vede la Dea, con qual profano errore
     Colei da l’altar suo la pompa scaccia,
     E sdegnata, e fermato il volo in Delo,
     Disse à la luce gemina del Cielo.

Ecco io, che di me stessa andava altera
     D’haver de i maggior lumi il mondo adorno,
     D’ambi voi mia progenie illustre, e vera,
     Ond’have il suo splendor la notte, e ’l giorno;
     Io, che fuor, ch’à colei, che à l’altre impera,
     Non cedo ne l’eterno alto soggiorno,
     Son da Donna mortale, ingiusta, e rea
     Posta nel mondo in dubbio, s’ io son Dea.

Ne solo à l’altar mio fatt’have oltraggio
     Di Tantalo la figlia empia, e rubella:
     Ma à te, che sei del giorno unico raggio,
     E al culto de la tua santa sorella,
     Con parlare orgoglioso, e poco saggio,
     Mentre rendea con pompa ornata, e bella
     À noi tre l’alma Thebe il sacro voto,
     Cosi diè legge al suo popol devoto.

Lasciate il sacrificio di colei,
     Che partorì in Ortigia i due gemelli,
     Non date incensi, come à vostri Dei,
     A i due, ch’uscir di lei lumi novelli.
     Sacrate à me, che son maggior di lei,
     A figli miei più splendidi, e più belli.
     Del nome mio fè il maggiore, e poi
     I suoi figli morta’ prepose à voi.

L’ ha fatto à tanto orgoglio alzare il corno
     L’haver visto dotato ogni suo parto
     Di qualche don, che fa un mortale adorno,
     E dopo i dieci haver contato il quarto,
     Che con non poca nostra ingiuria, e scorno
     Me, che il lume à la notte, e al dì comparto,
     Che dò la Luna à l’ombra, al giorno il Sole,
     Sterile hà nominata, e senza prole.

Ben s’assomiglia al temerario padre,
     Che à mensa fu del sempiterno Duce,
     E poi quà giù fra le terrene squadre
     I secreti del ciel diede à la luce,
     Poi ch’orba osa chiamar la vera madre
     De l’una, e l’altra necessaria luce,
     E in non temer la dignità superna
     Cerca imitar la lingua empia paterna.

Volea pregar la Dea, che del suo orgoglio
     Punir volesse la Regina Ismena;
     Ma disse Apollo il tuo lungo cordoglio
     Altro non fa, che differir la pena.
     Sopra di me questa vendetta io toglio.
     Ma la Dea, che le tenebre asserena,
     Disse, ella anche oltraggiato hà il nome mio,
     E parte vò ne la vendetta anch’ io.

Il gemino valor, che nacque in Delo
     Di strali empie il turcasso, e l’arco prende,
     Poi fa scendere un nuvolo dal cielo,
     E vi s’asconde dentro, e in aria ascende.
     Verso Ponente il novo apparso velo
     Il corso affretta, e sopra Eubea già pende,
     Quindi dietro à le spalle il mar si lassa,
     E verso la città di Cadmo passa.