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Felice lei se conosciuto tanto
     Non havesse il suo pregio, e ’l suo favore,
     E di quel, che capir può il carnal manto,
     Si fosse contentata humano honore,
     Si che parlando l’ indovina Manto
     Creduto havesse al suo fatal furore,
     Che ammonendo gli heroi, la plebe, e lei
     Cosi scoprì il voler de gli alti Dei.

Hoggi è quel lieto, et honorato giorno,
     Che Latona diè fuor Febo, e Diana,
     Onde del Sole il dì rimase adorno,
     La notte de la Dea casta silvana.
     Però cinga d’allor le tempie intorno
     Co’l popol suo la nobiltà Thebana,
     E le madri, e le mogli, e i figli invochi,
     Donando i grati incensi à sacri fochi.

La Dea ne gli occhi miei s’affisa, e mira,
     E passa per le luci, e ’l cor mi tocca,
     E nel pensier quel, c’ hò da dir, m’ inspira,
     E scopre il suo voler per la mia bocca.
     Però la voce, l’organo, e la lira
     Tutt’empia d’armonia l’Ismenia rocca,
     E si servi ogni modo, ogni atto pio,
     Che suol servarsi in venerare un Dio.

La fatal figlia di Tiresia à pena
     Havea di questo suon l’aere cosperso,
     Ch’ ogni mortal, che bee l’onda Ismena,
     Diè fede al suo vaticinato verso.
     Già la principal piazza è tutta piena
     D’invenerabil popolo, e diverso,
     E v’han tre altari eretti adorni, e belli,
     Uno à la madre, e l’ altro à i due gemelli.

Ogni etade, ogni sesso il fato adempie,
     Veste ogn’un le più ricche, e ornate spoglie.
     Del verde alloro ogn’una orna le tempie,
     Ó sia madre, ò sia vergine, ò sia moglie.
     Di suoni, e supplicanti voci s’empie
     L’aria, s’ornan le vie di fiori, e foglie.
     Copron le mura i razzi, e i simulacri
     Ardon d’ incenso, e mirra i fuochi sacri.

Intanto vien la Imperatrice altera,
     Spettabile di gemme, e d’ostro, e d’oro,
     La risplendente vista alma, e severa,
     Scesa parea dal sempiterno choro.
     In mezzo và d’un’ honorata schiera
     Con maestà, con gratia, e con decoro,
     Ma lo sdegno, c’havea nel lume accolto,
     Togliea qualche splendore al suo bel volto.

Quando fu in mezzo à l’ampia piazza giunta
     D’ogn’ intorno girò l’altere luci,
     E poi da invidia, e da superbia punta
     Cosi diè legge à più honorati Duci.
     Tu nobiltà da la tua Dea disgiunta,
     Che l’ignorante mio popol conduci,
     Porgi l’orecchie à me, lascia la pompa
     Pria, che la greggia mia più si corrompa.

Qual folle vanità, quai pensier sciocchi
     Dentro, e di fuor v’han tolto il doppio lume?
     Che crediate à gli orecchi, più che à gli occhi
     Nel venerare un non veduto Nume?
     Non sò, che folle error l’alma à ogn’un tocchi,
     Ch’à l’altar di Latona il foco allume,
     Et io, visibil Diva à l’alma, e à sensi,
     Anchor stò senz’altare, e senza incensi.

Facciam pur paragon di tanti, e tanti
     Miei pregi con gli honor, ch’adornan lei,
     Se l’origine sua vien da Giganti,
     Nasce la mia dal Re de gli altri Dei:
     Tantalo è ’l padre mio, che sol fra quanti
     Mai furo huomini al mondo, e Semidei,
     Veduto fu ne la celeste parte
     À la mensa mangiar fra Giove, e Marte.

Colei, che nel suo sen già Niobe alberga,
     È de le sette Pleiadi sorelle,
     Atlante è l’avo mio, le cui gran terga
     Sostengon tutto ’l ciel con tante stelle.
     L’altro avo è quel, la cui possente verga
     Dà nel ciel legge à l’alme elette, e belle,
     E per maggior mio honor l’ istesso Dio
     Si volle in Thebe far socero mio.