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sesto. 94

<poem> Maggior non si può fare onta, ò dispetto,

    Ch’opra schernir, ch’un fa, conosce, e stima.
    L’infelice donzella, che negletto
    Vede, e stracciato un vel di tanta stima,
    E percosso si sente il volto, e ’l petto,
    Prende una fune, e monta à un banco in cima.
    Co’l laccio annoda il collo, et una trave,
    Poi fida al lino attorto il corpo grave.

Ma pria, che soffogasse il nodo l’alma,

    Soccorso à tempo à l’infelice diede
    De l’alma Dea la vincitrice palma,
    C’hebbe del pender suo qualche mercede.
    D’herba, e venen la sua terrena salma
    Sparse con presta man dal capo al piede,
    Poi disse un novo corpo informa, e prendi,
    E vivi venenosa, e tessi, e pendi.

A pena quel venen sopra le sparse,

    Che tolse al corpo il grande, il duro, e ’l greve,
    Con picciol capo, e ventre à un tratto apparse
    Un’animal lanuginoso, e breve,
    Un sottil piè venne ogni dito à farse,
    Che pende al tetto risupino, e leve,
    Dal picciol corpo il lin rende, e lo stame,
    Et incatena anchor l’antiche trame.

Tutta la Lidia già freme, e risuona

    D’Aranne, e de la Dea di torma, in torma,
    E che la tessitrice di Meona
    Essercita il suo lin sotto altra forma.
    La fama, che di questo il mondo introna,
    Stampa da Lidia ogn’hor più lunge l’orma.
    Corre per tutto ’l mondo al Sole, e à l’ombra,
    E del miser successo il mondo ingombra.

Ogni un si sbigottisce, ogni un risolve,

    Che offender l’huom non dee celeste Nume,
    Perch’egli ò l’offensore in forma volve,
    Che segue in peggior corpo il suo costume,
    Overo il fa venir cenere, e polve,
    Ó sasso senza mente, e senza lume.
    Si sbigottisce il nobile, e la plebe,
    Eccetto Niobe allhor Regina in Thebe.

Prima, che ’l matrimonio celebrasse

    Niobe co’l Re dolcissimo Anfione,
    E che Meonia, e Frigia abbandonasse,
    Che lei vestir della carnal prigione,
    Visto più volte havea l’Arannee casse
    Percoter su la spoglia del Montone,
    E con piacer non poco, e maraviglia
    Conobbe in altra età la patria figlia.

Ma non però la pena, che rapporta

    La fama, che la Dea saggia le diede,
    Del suo superbo cor la rende accorta,
    De l’empia ambition, che la possiede,
    Anzi tanto la gloria la trasporta,
    Ch’à quei, che son de la celeste sede,
    Cerca involar gl’incensi, e ’l pio costume,
    Per arrogarlo al suo non vero Nume.

Chi troppo da gli Dei talvolta impetra

    Di troppo alta superbia arma la fronte,
    Ella un marito havea, che con la cetra
    I sassi dispiccar facea dal monte,
    E tanta co’l suo suon condusse pietra,
    Tanto pin, tanta sabbia, e tanta fonte,
    Che con rocche elevate; e forti mura
    La sua Regia città rendè sicura.

Superba andava assai di questa sorte,

    Ma molto più, che ’l suo terrestre velo,
    E quel del soavissimo consorte
    Origine trahean dal Re del cielo.
    L’ameno regno suo fertile, e forte,
    Sotto temperato ciel fra ’l caldo, e ’l gielo
    Pien d’habitanti, e di militia, e d’arte
    Nel grande orgoglio suo volse anchor parte.

L’animo le rendea non meno altero,

    C’havea si raro, e nobile il sembiante,
    Che non havea ne l’artico hemispero
    Più venerabil volto, e più prestante,
    Ma quel, che fe più indegno il suo pensiero,
    E men considerato, e più arrogante,
    Fur l’uscite da lei membra leggiadre,
    Che felice la fer sopra ogni madre.


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