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Havea si ben la Dea tutta distinta
     Ne la bell’opra questa historia intera,
     Che non l’havreste detta ombra dipinta,
     Ma ben un’attion vivace, e vera.
     La margine d’un fregio restò tinta
     Dove ramo con ramo intrecciat’era,
     Del frutto, che i pacefici in pregio hanno,
     E con l’arbore sua diè fine al panno.

L’altra mostrò con bel compartimento
     Ne la sua dotta, e ben intesa trama
     Giove tutto à l’amor lascivo intento,
     Che la figlia di Ceo vagheggia, et ama.
     Ben che render no’l vuol di lei contento
     La vergine, ch’Asteria il mondo chiama:
     Ma Giove cangia la celeste scorza,
     E si trasforma in aquila, e la sforza.

Dipinge l’altro mal, che poi l’avenne,
     Che Giove seguì anchor quest’ infelice,
     Ma per pietà gli Dei le dier le penne,
     E la cangiaro in una coturnice,
     Al fin su’l mare Icario il vol ritenne,
     Ma lo sdegnato Dio con mano ultrice,
     Poi che ’l suo amor di novo non impetra,
     La fa sopra quel mar notar di pietra.

Isola detta Ortigia in mar la forma,
     E, perche à Giove il suo fuggir dispiacque,
     Non sol mentre stampò per terra l’orma,
     Ma poi, ch’al dorso suo la penna nacque,
     Volle, ch’à galla in questa nova forma
     Su’l mar fuggisse dal furor de l’acque.
     Cosi notando andò senza governo
     L’Ortigia un tempo, ove mandolla il verno.

Per far chiara apparir pone ogni cura
     La sfrenata libidine di Giove,
     E la sua troppo barbara natura,
     Mentre se veste, e altrui di forme nove.
     Leda nel panno poi tesse, e figura,
     E fa, ch’un bianco Cigno in sen le cove,
     E mostra, che l’augello è ’l maggior Nume,
     Ch’ asconde il nero cor con bianche piume.

Tindaro re d’Ebalia fu consorte
     Di Leda, la qual Testio hebbe per padre.
     Giove in forma di Cigno oprò di sorte,
     Che d’un’ uuovo, e tre figli la fe madre:
     Fra gli altri di quell’uuovo uscì la morte
     De le superbe già Troiane squadre,
     Dico colei, c’hebbe si raro il volto,
     Che ne fu il mondo sottosopra volto.

Vi fe colei c’ hà il titol d’esser bella.
     Un Mondo appresso à lei pinse, ch’ardea,
     E ne la man le pose una facella,
     Onde le dava il foco, e l’accendea.
     Volle mostrar la stolida donzella,
     Che dal pensier Venereo, che rendea
     Non saggio il Re del regno alto, e giocondo,
     La ruina nascea del basso mondo.

I due non pinse già, che l’uuovo stesso
     Diè fuora, che fu Castore, e Polluce,
     C’havrebbe fatto un testimonio espresso,
     Che dal divino amor nasce la luce,
     Ch’ogn’un di lor fu trasformato, e messo
     Nel cerchio del zodiaco, ov’anchor luce.
     Ch’un voler dato al ben fu sempre in due,
     E s’abbracciano anchor fra ’l cancro, e ’l bue.

Mostrò poi come Satiro si feo,
     E con la bella Antiopea, che nacque
     Ne l’isola di Lesbo di Nitteo
     Moglie d’un Re Teban con frode giacque.
     Pinse il repudio anchor del re Liceo,
     À cui la moglie poi tanto dispiacque,
     Che fe con altra il nuttial convito,
     E lei star fe in prigion senza marito.

Gravida di due figli, fa in prigione
     Starla Liceo poi, che ’l connubio scioglie,
     Dipinge poi come d’Anfitrione
     La forma vuol per ingannar la moglie.
     Seco la casta Almena in letto il pone,
     E compiace innocente à le sue voglie,
     E con queste lascivie, e questi inganni
     Nota i pensier di Giove empi, e tiranni.