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Guardò con torte, e disdegnate ciglia
     L’allhor da lei non conosciuta Diva
     La troppo ardita, e temeraria figlia
     Per lo troppo saper del senno priva.
     Poi con questo parlar seco s’appiglia,
     Con quel furor, ch’ in lei lo sdegno avviva,
     E à gran fatica ritener si puote
     Di percotere à lei le crespe gote.

Pur troppo è ver, che la soverchia vita
     Priva l’huom del più nobil sentimento.
     Vedete questa vecchia rimbambita,
     Che dar consiglio à me prende ardimento.
     E ben convien, che sia del senno uscita,
     Che mostra haver de gli anni più di cento.
     Il consiglio del vecchio è buono, e saggio;
     Ma non di quel, che vive di vantaggio.

Qualche tua pronepote, ò discendente
     La voce tua fastidiosa assordi,
     Ch’ io ho tanto consiglio, e tanta mente,
     Che non ho punto à far de tuoi ricordi.
     S’atta à giostrar del par la Dea si sente,
     Le fila à figurar l’historie accordi.
     Ma sò, ch’ella tal prova non desia,
     Che sà, ch’ in questo affar la palma è mia.

Sdegnata Palla del soverchio orgoglio,
     Che in questa insana vergine ritrova,
     Minaccia, e dice, contentar ti voglio,
     Minerva io sono, e vo venire in prova.
     E già di questa pelle mi dispoglio,
     Ch’in me tutto in un tempo è vecchia, e nova.
     E quel, c’hor tengo volto antico, e schivo,
     Cangio co’l mio sembiante antico, e Divo.

Come la Dea palesa il suo splendore
     Con la divina sua fronte, e favella:
     Le Ninfe Lidie, e le propinque nuore,
     Che stupian del lavor de la donzella;
     Tutte s’ inginocchiaro à fare honore
     À la presa da lei forma novella,
     E improviso terror ciascuna oppresse,
     Se non l’altera vergine, che tesse.

È ver, ch’un’ improviso sangue tinse
     Di vergogna, e rossor l’ invito volto,
     E durò alquanto, e poi quel rosso estinse
     Il primiero vigor nel cor raccolto.
     Cosi talhor l’Aurora il ciel dipinse
     D’ostro, ma quel color non durò molto,
     Che tolse il rosso al cielo il Sol, ch’apparse,
     E del suo natural color lo sparse.

Fà, ch’Aranne al suo fatto il corso accende,
     La stolida vittoria, che la move,
     E superare in quella impresa intende
     La figlia incomparabile di Giove,
     Più la sdegnata Dea non la riprende,
     Ma vuol venire à le dannose prove.
     E le vuol far veder quanto s’inganni
     Con suoi perpetui, e manifesti danni.

Conchiuso c’ hanno il singular certame
     L’alma inconsiderata, e la prudente,
     Gli ordimenti apparecchiano, e le trame,
     Et ogni altra materia appartinente.
     Il più lodato poi di seta stame
     Fan nel pettine entrar fra dente, e dente,
     Il filo il dente incatenato lassa,
     E poi per molti licci al subbio passa.

Tutto d’un sol color fan l’ordimento,
     E del par fila ad ogni dente danno;
     Ma la trama vi fan d’oro, e d’argento,
     E d’altri assai color, vaghezza al panno.
     Le calcole vicine al pavimento,
     Ch’obediscono al piè sospese stanno,
     Son molte, e corrispondono in quell’opra
     À i molti licci, ch’obediscon sopra.

La vergine terrena, e l’ immortale
     Secondo ne duelli usar si sole,
Ú combatter si dè con arma eguale,
     Voller del pari haver colori, e spole.
     Hor per haver la palma trionfale
     Pensan formar figure uniche, e sole.
     Onde ogn’una di lor molti cannelli
     Veste di color varij, e tutti belli.