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Che non solo osò dir, che in tutto il mondo
Di belta donna à lei non era pare,
Ma che non era viso più giocondo
Fra le Ninfe più nobili del mare.
Dove Nettuno stà nel più profondo
Mar, se n’andar le Ninfe à querelare,
Dove conchiuso fù da gli aquei Dei
Di punir l’arroganza di colei.
Manda d’accordo un marin mostro in terra,
Perche dia il guasto à tutta l’Ethiopia.
Le biade egli, e le piante, e i muri atterra,
E fa lor d’ogni cosa estrema inopia.
Sepper poi da l’Oracol, che tal guerra
Si finiria se la sua figlia propia
Desse al pesce crudel Cassiopea,
Che bella sopra ogni altra esser dicea.
Così per liberare il popol tutto
Da così gravi, e perigliosi some,
Cagionaro in Andromeda quel lutto,
(Che così havea la sventurata nome)
E in quello scoglio sopra il lito asciutto
Ignuda la legaro al mostro, come
Dissi, che la trovò colui, che venne
À caso lì sù le Gorgonee penne.
Perseo fa, che l’augel nel lito scende,
E più da presso le s’accosta, e vede,
E mentre gli occhi cupidi v’intende,
E la contempla ben dal capo al piede;
Senza saper chi sia, di lei s’accende,
Et ha del suo languir maggior mercede,
E ’n lei le luci accese havendo fisse
Pien d’amore, e pietà cosi le disse.
Donna del ferro indegna, che nel braccio
Fuor d’ogni humanità t’annoda, e cinge,
Ma degna ben de l’amoroso laccio,
Che i più fedeli amanti abbraccia, e stringe;
Contami, chi t’ha posto in questo impaccio,
E quale Antropofago ti costringe
À farti lagrimar sul duro scoglio,
Che ’l lito, e ’l mar fai pianger di cordoglio.
Contami il nome, il sangue, e ’l regio seno,
Che t’ han dato per patria i sommi Dei.
Ch’ io veggio ben nel bel viso sereno
La regia stirpe, onde discesa sei.
Che se quel, che in me può, non mi vien meno,
Ti sciorrò da quei nodi iniqui, e rei.
China ella il viso, e si commove tanto,
Che in vece di risposta accresce il pianto.
E se i legami non l’havesser tolto
Le man, vedendo ignudo il corpo tutto,
Celato avrebbe il lagrimoso volto
L’ignudo fianco, la vergogna, e ’l lutto.
Pur si la prega il Greco, che con molto
Pianto, e con poche note il rende instrutto
De l’arroganza de la madre, e poi
Palese fè la patria, e’ maggior suoi.
Ecco, mentre che parla, un romor sorge,
E in un baleno il mar tutto turbare.
Perseo alza gli occhi, e mentre in alto scorge,
Pargli un monte veder, che solchi il mare.
Questo è quel pesce, à cui l’Oracol porge
L’infelice donzella à divorare,
E quanto mar da quel lito si scopre,
Tanto co’l ventre suo ne preme, e copre.
La misera fanciulla alza le strida;
Con fioco, e senil grido il padre piange;
La madre si percote, e graffia, e grida;
S’appressa il pesce ingordo, e l’ onda frange.
Perseo del suo valor tanto si fida,
Ch’ad ambo dice, dal dolor, che v’ange,
Io vi trarrò, ma ben vorrei, ch’offerto
Fosse il connubio suo premio al mio merto.
Perseo son io, figliuol del sommo Giove,
Nipote son d’Acrisio, Argo è ’l mio regno.
E se ben stesse à me dir le mie prove,
lo non sarei di voi genero indegno.
Cefeo, e la moglie à quel parlar si move,
E questa, e quei gli dà la fe per pegno,
Che se dal mare Andromeda riscote,
Gli daran lei con tutto il regno in dote.