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Hor dove nasce il Sol drizza la faccia,
     Hor dove ne l’ Hesperia ei si ripone;
     Vede hor del Cancro l’incurvate braccia,
     Hor l’Orsa, che sdegnar suol far Giunone.
     Tre volte vide dove il mar s’agghiaccia,
     E tre, dove son nere le persone.
     Hor vola fra le stelle, et hor s’atterra,
     E quando rade il ciel, quando la terra.

Già ne l’estremo mar cadeva il giorno,
     E cercava allumar l’altro Hemispero;
     Ne pensando più Perseo andar attorno,
     Ne creder se volendo à l’aer nero,
     Pensò il notturno consumar soggiorno,
     Dov’è l’Africa opposta al regno Hibero.
     Che quivi gli si fece il mondo oscuro,
     E si scoprì con l’altre stelle Arturo.

Reggeva Atlante l’ultimo Occidente,
     Quella terra godea, quel ciel, quel mare,
     Dove invitar suol Teti il più lucente
     Pianeta, al fin del giorno à pernottare.
     Non havea Re vicin, che più possente
     Potesse à le sue forze contrastare,
     D’imperio, e di più eletto popol moro,
     Di senno, d’arme, di valore, e d’oro.

Un giardin fra due monti si nasconde,
     C’ha volto à l’orto Hiberno il lieto aspetto,
     L’irrigan due diverse, e limpid’onde,
     Ch’ambe d’arena, e d’or corrono il letto.
     Gli arbori, i rami, i frutti, i fior, le fronde
     Risplendon tutti d’or forbito, e netto.
     Già ne rubò Prometeo al ciel un pomo,
     Quando il foco involò, che formò l’huomo.

L’ottenne poi dal suo fratello Atlante,
     E nel suo bel giardin sotterra il pose,
     Quel nacque, e fe multiplicar le piante,
     Ma ’l Re le tenne avaro à tutti ascose.
     Mai non pose lì dentro alcun le piante,
     Vi faceva egli sol tutte le cose,
     Egli era l’hortolano, egli il godea,
     Et un gran drago à guardia vi tenea.

Fea stare il crudo dente ogn’un discosto
     Del mostro altier, che in una torre stava;
     E s’un vedea vicin, d’un volo tosto
     Dava le penne à l’aria, e ’l divorava.
     Sol le figlie del Re (secondo imposto
     Atlante al mostro havea) non oltraggiava.
     Tal che d’ un grosso miglio intorno al muro
     Solo à lui quel paese era sicuro.

Hebbe ventura il Greco, che ’l dragone
     Volendo allhor ne l’horto il cibo torre,
     Che gli portò l’avaro suo padrone,
     Lasciato havea la guardia de la torre,
     Che l’infelice capo di Gorgone
     À tempo non havria potuto opporre,
     À la porta de l’oro il vol ritenne,
     Dove ad un grosso Pin legò le penne.

Non molto lunge à le superbe porte
     Vede il superbo Atlante, che vien fuore,
     E torna solo à la sua regia corte,
     Ne alcun gli viene in contro à fargli honore.
     Ch’ogni suddito suo teme si forte
     (Sia pur di grande ardir, sia di gran core)
     Del rio dragon, ch’alcun non s’assicura
     D’appressarsi d’un miglio à quelle mura.

Con quella riverenza, et humiltade,
     Ch’à dignità si deve alta, e superba,
     Perseo s’inchina à quella maestade,
     Che ne l’altiera fronte Atlante serba.
     Magno Signor dal ciel la notte cade,
     E non vorrei le piume haver da l’herba,
     E poi, che ’l giorno qui m’ha volto il tergo,
     À la maestà tua dimando albergo.

S’huom di progenie altissima ti move,
     E fa, che volentier gli dai ricetto;
     Se d’udir cose sopr’humane, e nove
     Prende Atlante invittissimo diletto;
     Alberga il giunto quì figliuol di Giove,
     Che di cose alte, e nove ha pieno il petto.
     E ben creder me’l puoi, ch’andando à torno
     Ho visto il mondo tutto in un sol giorno.