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quarto. 68

Si china poi la donna su ’l terreno,
     E liscia il serpe, et ei la cara sposa
     Riguarda, e l’entra poi serpendo al seno,
     E quivi s’attortiglia, e si riposa.
     Stupiscon, che non tema il suo veneno
     Alcuni, e stimar lei molto animosa,
     Che comparir, senza saper il fatto,
     E restò ogn’un, che ’l vide, stupefatto.

Nel seno il liscia la venerea figlia,
     E ’l serpe alza la testa, e in su si spinge,
     E intorno al bianco collo s’attortiglia,
     Con cinque cerchi, ò sei l’annoda, e cinge.
     L’hedera intorno al tronco rassimiglia,
     Che circonda la scorza, e non la stringe.
     La bacia il grato serpe, e le fa festa,
     Nel noto petto poi ficca la testa.

Stassi il capo nel seno, e par che dorma,
     E gode il ben, che ’l ciel già fe per lui.
     Prega la donna; ò Giove, e me trasforma,
     Si, ch’anchor serpe io sia moglie à costui.
     Ecco à un tratto ancho à lei fugge la forma,
     E non è più un serpente, ma son dui.
     E serpono ambedue fra l’herba, e vanno
     Ne’ più propinqui boschi, e lì si stanno.

Questi fecer di serpe quella sorte,
     La qual Cervona apppella il Regno Tosco,
     Non fuggon l’huom, ne men temon la morte
     Da lui, ne ’l mordon mai, ne meno han tosco.
     Hor, come vuol la lor cangiata sorte,
     Se ben comunemente amano il bosco,
     Han l’huom (c’huomini fur) per cosi fido,
     Che fanno in molte case i figli, e ’l nido.

Questo conforto solo era restato
     Al vecchio lor ringiovenito amore,
     Che Bacco il lor nipote havea portato
     Da tutta l’ lndia il trionfale honore,
     E per tutte le patrie era adornato
     Da la città crudel d’Acrisio in fuore,
     Il qual non sol raccor dentro no’l volle,
     Ma stimò la sua pompa infame, e folle.

Che stupor fia, s’Acrisio il Re non crede
     A le feste di Bacco altere, e nove,
     Poi ch’al nipote proprio non dà fede,
     Ne vuol, che sia figliuol Perseo di Giove?
     Nel viso suo l’alta sembianza vede
     Del Re, che tutto intende, e tutto move,
     Ne sol non l’ha per quel, ch’appar nel volto,
     Ma il fa gittar nel mar crudele, e stolto.

Una tenera figlia Acrisio havea
     Nomata Danae, si leggiadra, e bella,
     Che non donna mortal, ma vera Dea
     Sembrava al viso, à modi, e à la favella.
     Il padre per lo ben, che le volea,
     Saper cercò il destin de la sua stella.
     Ma ’l decreto fatal tanto gli spiacque,
     Che la fe col figliuol gettar ne l’acque.

Di Danae figlia tua (l’Oracol disse)
     Nascerà un figlio oltre ogni creder forte,
     Che (come son le sorti à ciascun fisse)
     Contra sua voglia ti darà la morte.
     Queste parole ne la mente scrisse
     Acrisio, e per fuggir si cruda sorte,
     Fù per ferire à la sua figlia il seno,
     Ma l’affetto paterno il tenne in freno.

Onde le fabricò, per far men fallo,
     Un superbo giardin per suo soggiorno,
     E d’altissime mura di metallo
     (Fattavi la sua stanza) il cinse intorno.
     In questo breve, e misero intervallo
     La condannò fin à l’estremo giorno.
     Pur per gradire in parte à l’infelice,
     Le diede in compagnia la sua nutrice.

Quivi ordinò, che con la balia stesse,
     Ne quindi volle mai lasciarla uscire,
     Perche l’amor de l’huom non conoscesse,
     Onde n’havesse un figlio à partorire.
     Ma non però il disegno gli successe,
     Che male il suo destin può l’huom fuggire.
     Quel, che regge nel ciel gli eterni Dei,
     La vide un giorno, e s’infiammò di lei.