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Corre con Melicerta in braccio, e stride,
     E chiama spesso Bacco il suo nipote.
     Aiuto (dice allhor Giunone) e ride,
     Lo Dio celebre tuo ti dia, se puote.
     Giunge al monte maggior, salta, e s’uccide,
     E col peso, c’ha in braccio, il mar percote.
     S’apre l’avido mar, l’inghiotte, e asconde,
     E fa lucide in su risplender l’onde.

Venere hebbe pietà de l’innocente,
     Che de la figlia Hermione, e Cadmo nacque,
     Così dicendo al Re, che co’l tridente
     Nel suo tetto real dà legge à l’acque.
     Habbi alto Dio pietà de la dolente
     Donna congiunta tua, che nel mar nacque,
     Dovrei dal mare haver gratia, ch’io crebbi
     Nel mare, e fui sua prole, e ’l nome n’hebbi.

I due nipoti miei, c’hoggi raccolse
     L’Euboico mare, in mar fà che sian Dei.
     Volontier consentì Nettuno, e tolse
     Quel mortal, che già fu nel figlio, e in lei.
     Poi quella maestà donar lor volse,
     Che fa, che l’huom si nume faccia, e bei.
     E fatto questo il beator Nettuno
     Nominò lei Matuta, e lui Portuno.

Molte donne Thebane la figliuola
     Vider del lor signor correndo andare
     Co’l figlio in braccio, scapigliata, e sola,
     (Quel, che mai non l’havean veduto fare)
     E sentendo insensata ogni parola,
     Si poser curiose à seguitare,
     E quelle, che di lor corser più forte,
     Vider non lungi il salto, e la sua morte.

Come san, che del Re morta è la figlia,
     Che chi morir l’ha vista, à l’altre il dice,
     Ciascuna si percote, e si scapiglia,
     E si chiama scontenta, et infelice.
     E questa, e quella mormora, e bisbiglia,
     Che tutto il mal vien da Giunone ultrice.
     Già sapean, che per Semele la Dea
     Tutto il sangue reale in odio havea.

Si duol di lei ciascuna, e si lamenta,
     Che troppo sia d’ogni pietate ignuda,
     Che troppo crudelmente si risenta,
     Che troppo dentro al cor l’ingiuria chiuda.
     Giunon di ciò sdegnata, io vò che senta
     (Dice) ogn’una di voi quanto io sia cruda.
     Voi ne sassi, ch’à lei Nettuno ha sacri
     Vò del mio duro cor far simulacri.

Una mossa à pietà seguir la volle,
     Ma nel voler saltar, le vien conteso.
     Che mentre per lanciarsi un piede estolle,
     Sente l’altro gravar da troppo peso.
     Vi guarda, e ’l vede marmo, e ’l corpo molle
     Dal duro sasso à poco, à poco è preso.
     Al duro scoglio il pie manco appiccosse,
     L’altro alto stè ne l’atto, in cui si mosse.

Una, che si battea, mentre fa prova,
     Co’l solito ferir darsi nel petto,
     Alzata c’ha la mano, il braccio trova
     Fatto di pietra, e non può far l’effetto.
     Una à la gente, che venia più nova,
     Mostrava, ov’ella ascose il regio aspetto;
     E secondo, ch’al mar tendeva il dito,
     Il simulacro suo restò scolpito.

L’altra, che si svellea le bionde chiome,
     E che chiamava lagrimando in vano
     Di lei l’illustre, e riverito nome,
     Fermò nel sasseo crin la sassea mano.
     Restò la bocca aperta, e mesta, come
     Stava quando mancò del senso humano.
     Lagrimoso era il viso, e quel mirando
     Si conoscea, che si dolea gridando.

Molte, e molt’altre addolorate, e meste,
     Che piangevan di lei l’acerba morte,
     Fecer di piume al corpo un’ altra veste,
     E diventaro augei di varia sorte.
     Chi di bianco vestia, di bianco hor veste,
     E i bianchi, e i neri anchor l’aman si forte,
     Che radon sempre l’onde nel volare,
     E non si posson mai levar dal mare.