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Tre fiate la Dea crolla la testa,
     E fa sdegnar le serpentine chiome,
     Tanto ch’alzando ogni animal la cresta,
     Vibra tre lingue sibilando, come
     Se s’oltraggia una serpe ardita, e presta
     S’alza, vibra tre lingue, e ’l venen vome.
     Così s’alza ogni serpe in un baleno,
     E contra quegli aventa il suo veleno.

Qual s’una Ninfa al vento il tergo volta,
     C’ha sparso il biondo crin, sottile, e bello,
     Fa l’aurea rabbuffar la chioma sciolta,
     E guarda, ove guarda ella ogni capello:
     Tal ogni serpe il suo sguardo rivolta,
     Dov’ella drizza l’occhio oscuro, e fello.
     E fan tutti diadema al volto avante,
     Guardando verso d’lno, e d’Atamante.

Indi da crudi crin due serpi svelle,
     E lor con man pestifera gli aventa
     Le quai tosto ambo annodano, e di quelle
     L’una la donna, l’huom l’altra tormenta.
     Et ambedue senza intaccar la pelle,
     Fan, che ’l core, e la mente il venen senta.
     Questa, e quei scaccia il serpe, e ’l risospinge,
     Ma il drago ogn’ hor più rio li punge, e stringe.

Di più veneni un tosco havea formato,
     Ch’era una irreparabile mistura,
     V’è la spuma di Cerbero, e ’l mal fiato
     De l’ldra, e v’è il tremor de la paura.
     V’è de la rabbia il fel, v’è l’ insensato
     Oblio de la pazzia, v’è l’atra, e scura
     Sete de l’empia morte, e anchor de l’ira
     La bava, ch’ella fa mentre s’adira.

Tutta questa mistura insieme unita
     Con di cicuta, e di sardonia alquanto,
     E dentro al rame poi cotta, e bollita
     Ne le misere lagrime del Pianto.
     De la decottion, che n’era uscita,
     Piena una ampolla havea portata accanto.
     La virtù del liquor di fuor non bagna,
     Ma fa, che dentro il cor s’infetta, e lagna.

Su’l capo d’ambedue quell’acqua sparse,
     E finì d’offuscar lor l’intelletto.
     Girò tre volte poi la face, et arse
     L’aere, e del fosco fumo il fece infetto.
     Indi da lor vittoriosa sparse,
     Per ritornarsi al suo più scuro tetto.
     E di tanto stupor quei lasciò presi,
     Che stero un pezzo immobili, e sospesi.

Non si ricordan più chi siano, ò dove,
     Ne men d’haver veduti i crudi mostri.
     Ma già l’huomo il veneno instiga, e move,
     E fa, che ’l suo furor rabbioso mostri.
     Già grida, ecco compagni, ecco, ch’altrove
     Tender non ci bisogna i lacci nostri.
     Tendiamo in queste selve a i crudi artigli
     Di questa empia Leonza, c’ ha due figli.

Come se fosse una selvaggia fera
     L’insano cacciator la moglie caccia.
     E mentre ella è stordita di maniera,
     Che non sa se si fugga, ò che si faccia;
     Clearco un suo figliuol, che in braccio l’era,
     E che ridendo à lui stendea le braccia,
     Da lei per l’un de’ piedi afferra, e tira,
     E d’una fromba à guisa il rota, e gira.

Di quel girare il centro ha preso il piede,
     Ma la circumferentia il capo ha tolto.
     Tre volte il rota, e poi co’l capo fiede
     Ad un candido marmo il duro volto.
     Come la madre il duro scempio vede,
     Che fe del dolce figlio il padre stolto,
     Stracciando il crin volge al marito il tergo,
     E lascia in furia il parricida albergo.

Un scoglio dentro in mar si spinge, e poggia,
     Che stretto, lungo, et aspro in là si stende,
     Da l’empio mar cavato d’una foggia
     Co’l continuo picchiar, che ’l sasso offende,
     Che salva l’onde salse da la pioggia,
     Tal, che l’acque da l’acque illese rende.
     Ver questo scoglio al mar drizza il camino
     La furiosa, e miserabile Ino.