Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/137


quarto. 63

Coglie hor fior per ornarsi, e ’n sen gli serba,
     E forse anche in quel tempo il fior cogliea,
     Che vider gli occhi suoi seder sù l’herba
     Il figliuol di Mercurio, e Citherea.
     Mira, e non scorge in quella etate acerba,
     S’egli ha d’un Dio l’aspetto, ò d’una Dea.
     Ma dal vestir, che sia fanciullo intende,
     E de l’amor di lui tosto s’accende.

E ben che la spronasse una gran voglia
     Di gire à far col bel garzon soggiorno,
     Pur non v’andò, che rassettò la spoglia,
     E diè l’occhio à le vesti d’ogn’intorno.
     Guarda come il suo crin leghi, e raccoglia,
     Perche paia più vago, e meglio adorno.
     Compone il viso, e non si mostra, ch’ella
     Merita in tutto esser veduta bella.

Come con l’acque si consiglia, e vede
     La veste acconcia, il viso, il velo, e ’l crine,
     E le pare esser tal, ch’al fermo crede
     Venir con esso al desiato fine:
     Move l’acceso, e desioso piede
     Ver le bellezze angeliche, e divine.
     Fermò poi gli occhi in lui fisi, et intenti,
     E fe l’aria sonar di questi accenti.

Spirto gentil, ch’alberghi in si bel nido,
     Che divin ti dimostra, e non mortale.
     E se pur sei divin, tu sei Cupido,
     Se ben non porti la Faretra, e l’ale.
     Ben ti fu quello albergo amico, e fido,
     Che pose tanto studio à farti tale,
     Che ti diè sì bel viso, e sì giocondo,
     Ch’un simil mai non n’ha veduto il mondo.

Felice madre di si nobil frutto,
     E se sorella n’hai non men felice,
     Ne di lei men, ne di chi t’ha produtto,
     Si può chiamar beata la nutrice.
     Ma ben gradita, e fortunata in tutto
     La sposa è (se tu l’hai) cui goder lice
     Si delicate membra, e sì leggiadre,
     Che ti formò si gloriosa madre.

Se giunto à sposa sei, non ti sia grave,
     Ch’io furtivo di te prenda diletto,
     E ch’io goda d’un don, così soave,
     Come promette il tuo divino aspetto.
     Se nodo coniugal stretto non t’have,
     Fà me tua sposa, e fa comune il letto.
     Non mi negare, ò sia legato, ò sciolto,
     Ch’io goda di quel ben, ch’è in te raccolto.

Così disse la Ninfa al gentil figlio,
     E tutta intenta la risposta attese.
     Et ei con gran rispeto abbassò il ciglio,
     Tal rossore, e vergogna il vinse, e prese.
     Il dolce viso suo bianco, e vermiglio,
     Di più bel rosso subito s’accese.
     Quel color, che ’l dipinse à l’improviso,
     Gli fe più bello, e gratioso il viso.

Come quando il mezzo orbe à noi tien volto
     Delia, in cui fere il formator del giorno,
     E mostra tutto l’allumato volto,
     Onde la veggiam piena, e non col corno,
     Se da la terra vien quel lume tolto,
     Che ’l ricopra con l’ombra d’ogn’intorno,
     Fra lei stando, e fra ’l Sol, la Luna astringe,
     Che d’ostro il suo color confonde, e tinge.

Così al fanciullo la vergogna tinse
     Il volto col sanguigno suo pennello
     D’un ostro natural, che gliel dipinse
     Di maggior gratia, e ’l fe venir più bello.
     Con le cupide braccia ella l’avinse,
     E diede un bacio à quel color novello,
     Ben ch’à la bocca il bacio elIa converse,
     Ma il garzon torse il viso, e no’l sofferse.

Non sa, che cosa è amor, ne che si voglia
     Il semplice garzon la Ninfa bella,
     E cerca tutta via come si scioglia
     Da lei, che in questa forma gli favella.
     Lascia amor mio, che da tuoi labri io toglia
     Baci almen da congiunta, e da sorella.
     Se quei dolci d’amor dar non mi vuoi,
     Non mi negar quei de’ parenti tuoi.