Coglie hor fior per ornarsi, e ’n sen gli serba,
E forse anche in quel tempo il fior cogliea,
Che vider gli occhi suoi seder sù l’herba
Il figliuol di Mercurio, e Citherea.
Mira, e non scorge in quella etate acerba,
S’egli ha d’un Dio l’aspetto, ò d’una Dea.
Ma dal vestir, che sia fanciullo intende,
E de l’amor di lui tosto s’accende.
E ben che la spronasse una gran voglia
Di gire à far col bel garzon soggiorno,
Pur non v’andò, che rassettò la spoglia,
E diè l’occhio à le vesti d’ogn’intorno.
Guarda come il suo crin leghi, e raccoglia,
Perche paia più vago, e meglio adorno.
Compone il viso, e non si mostra, ch’ella
Merita in tutto esser veduta bella.
Come con l’acque si consiglia, e vede
La veste acconcia, il viso, il velo, e ’l crine,
E le pare esser tal, ch’al fermo crede
Venir con esso al desiato fine:
Move l’acceso, e desioso piede
Ver le bellezze angeliche, e divine.
Fermò poi gli occhi in lui fisi, et intenti,
E fe l’aria sonar di questi accenti.
Spirto gentil, ch’alberghi in si bel nido,
Che divin ti dimostra, e non mortale.
E se pur sei divin, tu sei Cupido,
Se ben non porti la Faretra, e l’ale.
Ben ti fu quello albergo amico, e fido,
Che pose tanto studio à farti tale,
Che ti diè sì bel viso, e sì giocondo,
Ch’un simil mai non n’ha veduto il mondo.
Felice madre di si nobil frutto,
E se sorella n’hai non men felice,
Ne di lei men, ne di chi t’ha produtto,
Si può chiamar beata la nutrice.
Ma ben gradita, e fortunata in tutto
La sposa è (se tu l’hai) cui goder lice
Si delicate membra, e sì leggiadre,
Che ti formò si gloriosa madre.
Se giunto à sposa sei, non ti sia grave,
Ch’io furtivo di te prenda diletto,
E ch’io goda d’un don, così soave,
Come promette il tuo divino aspetto.
Se nodo coniugal stretto non t’have,
Fà me tua sposa, e fa comune il letto.
Non mi negare, ò sia legato, ò sciolto,
Ch’io goda di quel ben, ch’è in te raccolto.
Così disse la Ninfa al gentil figlio,
E tutta intenta la risposta attese.
Et ei con gran rispeto abbassò il ciglio,
Tal rossore, e vergogna il vinse, e prese.
Il dolce viso suo bianco, e vermiglio,
Di più bel rosso subito s’accese.
Quel color, che ’l dipinse à l’improviso,
Gli fe più bello, e gratioso il viso.
Come quando il mezzo orbe à noi tien volto
Delia, in cui fere il formator del giorno,
E mostra tutto l’allumato volto,
Onde la veggiam piena, e non col corno,
Se da la terra vien quel lume tolto,
Che ’l ricopra con l’ombra d’ogn’intorno,
Fra lei stando, e fra ’l Sol, la Luna astringe,
Che d’ostro il suo color confonde, e tinge.
Così al fanciullo la vergogna tinse
Il volto col sanguigno suo pennello
D’un ostro natural, che gliel dipinse
Di maggior gratia, e ’l fe venir più bello.
Con le cupide braccia ella l’avinse,
E diede un bacio à quel color novello,
Ben ch’à la bocca il bacio elIa converse,
Ma il garzon torse il viso, e no’l sofferse.
Non sa, che cosa è amor, ne che si voglia
Il semplice garzon la Ninfa bella,
E cerca tutta via come si scioglia
Da lei, che in questa forma gli favella.
Lascia amor mio, che da tuoi labri io toglia
Baci almen da congiunta, e da sorella.
Se quei dolci d’amor dar non mi vuoi,
Non mi negar quei de’ parenti tuoi.