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Di Venere la face è tanto ardente,
     Che non solo i mortali in terra offese,
     Ma i più sublimi Dei nel ciel sovente
     Con le sue fiamme gravemente accese.
     E ’l biondo illustre Dio, ch’à varia gente
     Fà vario il clima, l’anno, il giorno, e ’l mese,
     Più volte acceso dal suo vivo ardore,
     Provò il dolce, e l’amar, che porge Amore.

Fra quante de lo Dio, l’auree cui chiome
     Danno il giorno à mortali, arser giamai,
     Una, c’hebbe, com’ io Leucotoe nome,
     Rendè più caldi i suoi cocenti rai:
     E voglio hor raccontarvi, e dove, e come,
     E d’ambi gl’ infortunij, i pianti, e i guai,
     Perche sdegnossi Venere, onde nacque
     Che fece, che colei tanto li piacque.

Il primo fù, che l’adulterio scorse,
     Che Venere fe già con Marte e il Sole.
     Ne maraviglia è, s’ei primier s’accorse,
     Poi che primo ogni cosa ei veder sole,
     Di palesarlo, ò no, stà un pezzo in forse,
     Poi seguane che può, scoprire il vole,
     Non può soffrir, che sia, l’autor del giorno
     Al fabro de gli Dei tal fatto scorno.

Senza punto indugiar trova Vulcano,
     E gli palesa il fallo de la moglie,
     E quei diventa in un momento insano,
     Tanto gran gelosia nel petto accoglie.
     Tosto al dotto martel porge la mano,
     Et ogni lima, ogn’ istrumento toglie,
     Che per far uno ingegno gli bisogna,
     Per far, che sappia ogn’un la sua vergogna.

Fà, che con rame, e ferro un liquor bolle,
     Che forma una mistura à lui secreta,
     E tal rete ne fa sottile, e molle,
     Che più non si potria se fosse seta.
     À gli stami d’Aranne il pregio tolle,
     Ad ogni occhio il suo fil di veder vieta,
     Dove il Sol gli mostrò, corre, e la tende
     In guisa, ch’occhio alcun non la comprende.

Non vuol come un nel letto à poner vasse,
     Che la rete, che v’è, subito scocchi,
     Che prenderebbe quel, che pria v’entrasse,
     Ma vuol, ch’ad ambedue la sorte tocchi.
     E però un fil vi pon, che in parte stasse,
     Che forza è, se due son, che ’l fil si tocchi,
     Da poi s’asconde, e quindi non si parte,
     Che vede l’infedel consorte, e Marte.

Hor mentre ha in colmo il suo contento il tatto,
     Che di due corpi varij un sol ne forma,
     E fonde il respirar penoso, e ratto
     Quel sangue, che pur pria cangiò la forma,
     E ’l piacer rende l’huom sì stupefatto,
     Che travolge le luci, e par che dorma,
     In così dolce lotta il fil si tocca,
     E l’ inganno, che v’è, subito scocca.

Nel sommo del gioire, e del diletto,
     L’uno, e l’altro improviso al laccio è colto;
     E l’uno, e l’altra stà congiunto, e stretto,
     Mirabilmente in quella rete avolto.
     Tien, ne mover si può petto con petto,
     S’affronta, e fermo stà volto con volto,
     Come ciascun, che s’ama in quello stato
     Nel suo maggior piacer tiensi abbracciato.

Lo sciocco fabro allhora aprì le porte,
     E gli Dei tutti à veder fe venire,
     Che riser sì, che la celeste corte
     Non hebbe per un tempo altro, che dire.
     E vi fu più d’un Dio giovane, e forte,
     Che de la ignuda Dea venne in desire,
     Ne cureria (pur che le fosse in braccio)
     D’esser colto da tutti in quell’ impaccio.

Scoperto c’ ha la sua vergogna, e l’arte
     Quel Dio, ch’ad ogni suo passo s’ inchina,
     Mostra il nodo à Mercurio, e poi si parte,
     E torna zoppicando à la fucina.
     Non vuol trovarsi al dislegar di Marte,
     Che non gli azzoppi il piè, che ben camina,
     Ma se crede oltraggiarlo in Mongibello,
     Proverà quanto pesa il suo martello.