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Volea più dir, ma la sua misera alma
     Venuta era al suo fine, e fu sforzata,
     D’abbandonar la sua terrestre salma,
     E la moglie infelice, e disperata.
     Raddoppia il grido, e batte palma, à palma,
     L’abbraccia cosi morto, il bacia, e ’l guata,
     E ben che ’l molto duol molto impedisse
     Il suo rotto parlar pur così disse.

Se le mie sanguinose, e tinte vesti
     Del non mio sangue ti toccar sì il core,
     Perche me morta Piramo credesti,
     Se ben potevi in ciò prendere errore,
     Che di tua mano uccider ti volesti,
     Per dimostrar la forza del tuo amore,
     Che farò io, che te, mio conforto,
     E veggo, e tocco, e tengo in braccio morto?

Io già non veggio una macchiata scorza,
     Ne posso ingannar d’opinione,
     Io te, te veggio morto, onde mi sforza
     Amor la tua mort’empia, ogni ragione
     À mostrar, che ’l mio amor non ha men forza,
     E che non è di men perfettione,
     E se tu fosti in te per me tant’empio,
     Che debbo io far per te con questo essempio?

E se togliesti al bel sembiante humano
     Con cor viril la viva imago, e bella,
     Si come piacque al caso horrendo, e strano,
     Che t’ordinò la tua maligna stella:
     Amor darà tal forza à questa mano,
     Se ben sono una tenera donzella,
     Che chiamata sarò per l’avenire,
     E compagna, e cagion del tuo morire.

E dove morte sol pria potea fare
     Che non s’unisse il tuo bel corpo al mio,
     Morte non ci potrà più separare,
     Poi ch’ogni ragion vuol, che mora anch’ io.
     Vogliate ò padri miseri accettare
     Il nostro ragionevole desio,
     Che quei, ch’ amor congiunse, e l’ultima hora,
     Congiunga insieme un sol sepolcro anchora.

Tu, che co i rami tuoi bramato legno
     Copri hora un morto, e dei coprirne due
     Sotto cui doppio già, ma van disegno
     Di goder ambo, e non di morir fue,
     Serba di noi perpetuo eterno segno,
     Tingi tutte di duol le gelse tue,
     Fa lor del nostro sangue oscuro il manto,
     Ch’altro non voglia dir, che doglia, e pianto.

Ma par chi tanto indugia, che non habbia
     Di morir voglia, anzi la morte schive.
     Da i baci estremi à le defunte labbia,
     Che tanto amato havea di baciar vive.
     Alza l’acciar da la sanguigna sabbia,
     E pria che del veder le luci prive,
     Dice queste parole, e tien ben mente
     A la spada homicida, et innocente.

Deh poi c’hoggi la mia crudel fortuna
     In vece d’ogni ben, d’ogni dolcezza,
     Contra me disperata insieme aduna
     Quanta fu mai nel mondo ira, et asprezza,
     Terso, e lucido acciar mia vista imbruna,
     E ’l mio stame vital subito spezza,
     E in vece de l’usata crudeltate,
     Ne l’uccidermi tosto usa pietate.

Sopra il pungente acciar cader si lassa,
     Che forse suo mal grado il petto offende,
     E tanto il peso in giù la donna abbassa,
     Che giunge al caro sposo, e ’n braccio il prende.
     Un peregrin non lunge in tanto passa,
     E ’l pianger de la donna à caso intende,
     E ’l piede à quel gridar drizza, e ’l pensiero,
     Che vuol saper di quel lamento il vero.

Tanto di vivo à Tisbe era rimaso,
     Che potè far, che ’l peregrin sapesse
     Di loro amanti il doloroso caso,
     E lui pregò ch’ à i lor padri il dicesse.
     A lei del viver suo giunta à l’occaso
     Quelle gratie, che volle, il ciel concesse.
     Mostra il frutto al mantel quando è maturo
     Quel sangue, e quel color funebre, e scuro.