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Ritrova prima il vel macchiato in terra,
     E d’un gran mal comincia à temer forte.
     No’l riconosce già, che in quella terra
     Molte il soglion portar di quella sorte.
     Ma come con più studio gli occhi atterra,
     Trova segnal di necessaria morte.
     Vede sangue per tutto, e nel sabbione
     Conosce le pedate del Leone.

Deh Luna ascondi il luminoso corno,
     E più che puoi, fa questa notte bruna,
     Adombra il ciel tu Noto d’ogn’ intorno,
     E le più scure nubi insieme aduna.
     Che ’l mal, ch’ad ambedue vuol torre il giorno,
     E intanto passerà questa fortuna
     Non trovi, e vegga, io dico, quella vesta,
     Che coppia sì gentil vuol far funesta.

Stà con gran diligenza à riguardare,
     E non può gli occhi più tor da l’arena,
     E ’l piè, ch’ impresso del Leon v’appare,
     Quel giovane infelice à morte mena.
     Discorre, guarda, e và, ne può trovare
     Cosa, che non sia trista, e di duol piena,
     L’orma il conduce, e fa, che trova, e guarda
     Quella veste colpevole, e bugiarda.

Deh non dar fede misero à quel panno,
     Che di così gran male indicio apporta,
     E che t’astringe à creder per tuo danno,
     Che senza dubbio alcun Tisbe sia morta.
     Ne ti lasciar sì vincer da l’affanno,
     Che vogli à giorni tuoi chiuder la porta.
     Attendi un poco anchor, ch’ella ne viene,
     E non ti priverai di tanto bene.

Come dà l’infelice i miseri occhi
     Nel sangue, e prende quella vesta, e vede,
     E riconosce le cinture, e i fiocchi,
     E molti altri ornamenti ch’ei le diede:
     Convien, che in pianto, e ’n lagrimar trabocchi
     Il gran dolor, che ’l cor gli punge, e fiede,
     Ben ch’in principio il duol l’occupa tanto,
     Che pena à darlo fuora in voce, e in pianto.

Come ricuperar la voce puote,
     E ch’aperte al suo duol trova le porte,
     Di lagrime bagnando ambe le gote,
     E facendosi udir, più che può forte,
     Dice quest’acre, e dolorose note,
     Dunque m’hai tolto invidiosa morte
     La mia dolce compagna in un momento,
     Hor, ch’ io sperava haverne ogni contento.

Ahi quanto, ahi quanto à noi voi fate torto
     Siate stelle, destin fortuna, ò fato,
     À far in questo amor rimaner morto,
     Chi non ha punto in questo amore errato.
     Cercammo al nostro mal trovar conforto
     Con modo ragionevole, e lodato,
     E ’l nostro consumar giusto desio
     Con la legge de gli huomini, e di Dio.

Non meritava già sì giusta voglia
     Da te sorte crudel tal premio havere,
     Ne d’alma sì gentil sì bella spoglia,
     Farsi esca di rapaci, et empie fiere.
     Deh cieli per aggiugner doglia, à doglia,
     Che non mi fate al men l’ossa vedere?
     Chi mi mostra il camin dov’ho d’andare,
     Per trovar quel, che non vorrei trovare?

Oime, che molte fiere uccisa l’ hanno,
     E straciata co i denti, e con gli artigli,
     Come fa testimonio il sangue, e ’l panno,
     E gli ornamenti suoi fatti vermigli.
     E divisa in più parti iti saranno
     A farne parte à i lor voraci figli
     Leoni, et altre fiere horrende, e strane,
     Troppo dolce esca à le lor crude tane.

Quanto restiam panno infelice mesti
     Ahi quanto, ahi quanto ben ci è stato tolto.
     Tu le sue belle carni già godesti,
     Io la divinità del suo bel volto.
     Tù di goderle più privato resti,
     Et io del frutto anchor, c’hoggi havrei colto.
     Quel ben, c’havesti già, tu l’hai perduto,
     Et io quel, c’hebbi, e c’havrei tosto havuto.