Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/120

Come il sospeso piè la sala ottiene,
     Si volge a man sinistra, e ’l muro trova,
     E con ambe le mani à lui s’attiene,
     Ma la destra và innanzi, e palpa, e prova.
     Passa quest’uscio, e quel tanto che viene
     À quel, dove ha da far la prima prova;
     E dopo assai cercar la toppa incontra,
     E prova, se la chiave si riscontra.

Se ben la fedel toppa non consente
     Con varij suoi riscontri, e varij ingegni
     D’essere ad altra chiave obediente,
     Ch’ à quella, che ’l Signor vuol ch’ ivi regni:
     Pur, quando scontra ogni croce, ogni dente,
     E che ritrova tutti i contrasegni,
     Che le diede il signor, crede al mentire
     De la bugiarda chiave, e lascia aprire.

Allegra esce di sala, e ’l muro prende,
     E tien ben à memoria ovunque passa,
     Giunge à le scale, e quelle, che discende,
     Conta, che vuol saper quante ne lassa.
     E tanto à gire in giù contando intende,
     Che si ritrova à la scala più bassa,
     Giunge poi dove un ferro assai più forte
     Apre, et inganna anchor le maggior porte.

Come il cupido piè la strada ottenne,
     Al fermo loco amor così la punge,
     Che quando havesse al suo correr le penne,
     Non giungeria più presto che vi giunge.
     Sotto l’ombra d’un’ arbore si tenne,
     Ch’ intorno i rami suoi stende assai lunge,
     D’un gelso, ch’era lì carco di frutti,
     Come neve del ciel, candidi tutti.

Con intrepido cor ne l’herba giace,
     Che forte, e ardita la faceva amore.
     Hor mentre spera haver contento, e pace,
     E satisfar d’ogni diletto al core;
     Compare un fier Leone empio, e rapace
     Non lunge, e nel venir fa tal romore,
     Ch’ella, che sente come altero rugge,
     Si leva, e con piè timido la fugge.

Dal viso il bel color subito sparse,
     E s’arricciò à la donna ogni capello,
     Come al raggio lunar lontan comparse
     Quel feroce animal crudele, e fello.
     Ne venne il picciol fascio à ricordarse,
     Ch’appresso al fonte cristallino, e bello
     Havea lasciato, ov’era la sua vesta,
     Anzi le cadde il vel, c’aveva in testa.

In una oscura grotta si nasconde,
     Là dove piena di paura stassi,
     E s’ode mormorar pure una fronde,
     Trema qual foglia al vento, e di giel fassi.
     Dritto il Leone à le sue solite onde
     Per cavarsi la sete affretta i passi,
     C’havea pur dianzi un bue posto à giacere,
     E ben satio di lui venia per bere.

E tinto di quel sangue, e sparso tutto,
     E la bocca, e la fronte, e ’l collo, e ’l pelo,
     AI fonte già così macchiato, e brutto,
     E come piacque al non benigno cielo,
     Fu in quella parte il rio Leon condutto,
     Dove lasciato havea la donna il velo,
     E spinto dal furor, che ’l punge, e caccia,
     Il fiuta, in bocca il prende, il macchia, e straccia.

À l’arbor poi, c’ ha il picciol fascio al piede,
     Con maggior rabbia, e maggior furia giunge,
     E quello imbocca subito che ’l vede,
     E d’empia morte novi indicij aggiunge.
     Da poi beve à bastanza il fonte, e riede
     Dove il furor, ch’egli ha, lo sprona, e punge,
     Et à pena il crudel se n’era andato,
     Che giunse l’ infelice innamorato.

Piramo anchor nel petto ha tanto foco,
     Che di quel ch’ordinò, più tosto sorge,
     Perche se giunge pria la donna al loco,
     Troppo grand’agio à gl’ infortunij porge.
     À ratto andar lo stimola non poco
     La porta del suo amor, ch’aperta scorge,
     Che li fa vero inditio, e manifesto
     Che si partì di lui Tisbe più presto.