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Penteo s’ostina di volerlo morto,
     Ne vuol, che sian da se le porte aperte,
     Ma ben che i servi gli habbian fatto torto,
     Tenendo quelle pompe sante, e certe,
     Tal che più non volendo essere scorto,
     À girvi egli in persona si converte,
     Ne più vi manda i servi come prima,
     Dapoi, che d’un fanciul fan tanta stima.

Già queste genti essendo giunte, e quelle,
     Faceano un’armonia discorde, e varia
     D’instrumenti, di gridi, e di favelle,
     Che rendean sordo l’huom, la terra, e l’aria.
     E più le furiose damigelle
     Con una libertà non ordinaria
     Stridean cantando per tutto il camino
     Versi, in honor de l’ inventor del vino.

Sì come freme un feroce cavallo
     À l’uso de la guerra esperto, e buono,
     Quando il trombetta al suo cavo metallo
     Lo spirto avviva, e fa sentire il suono,
     Che sbuffa, e corre al bellicoso ballo,
     Dove le squadre à lui nemiche sono:
     Tal Penteo corse contra le Baccanti
     Al suon di quei discordi urlari, e canti.

Ha il Citeron di selve un prato cinto
     Senza arbori nativi, e senza piante,
     D’herbe, e di varij fior tutto dipinto;
     Dove si fan le cerimonie sante.
     Verso quel prato, da grand’ira vinto
     Penteo drizzò le temerarie piante,
     E à pena v’entra, che la madre il vede
     Nel prato por lo sfortunato piede.

Contra quei riti sacri andando l’empio,
     Era stato da tutti abbandonato,
     L’acciecò il ciel per darne agli altri essempio,
     E fe, che v’andò solo, e disarmato.
     La madre, ch’era per entrar nel tempio,
     Tosto, che ’l vede comparir nel prato,
     Prima di tutte l’altre insana, e stolta
     Le spalle al tempio, à lui la faccia volta.

E sì come di lui volean le stelle,
     Come havea detto già Tiresia il saggio,
     Disse la madre à l’altre due sorelle,
     Volgete gli occhi à quel porco selvaggio,
     Ch’à turbar vien le feste sacre, e belle,
     Andiam tutte d’un core à fargli oltraggio,
     Tanto, che contra lui le donne unirsi
     Con mille spade ignude, e mille thirsi.

Egli, che contra altier venir si vede
     Quel donnesco ebro, e furioso stuolo,
     Per fuggir volta l’avvilito piede,
     Perche si trova disarmato, e solo.
     Poi si volge à pregar, perche non crede
     Ch’empia la madre sia contra il figliuolo,
     Ne men, che le due zie, di cui si fida,
     Possan soffrir già mai, ch’altri l’uccida.

Non più quelle orgogliose aspre parole
     Usa con le parenti empie, e superbe,
     Ma confessa il suo errore, e se ne dole
     Con quelle più, che mai fiere, et acerbe;
     E con quell’humiltà, ch’usar non suole,
     Mostra, che ’l sangue suo già tinge l’herbe,
     E le prega che traggan di periglio
     Il nipote, le zie, la madre, il figlio.

Et à la madre d’Atteon ricorda
     Quel, ch’ al suo figlio incognito intervenne,
     Ma quella à i prieghi suoi spietata, e sorda
     À ferir lui poco cortese venne.
     Ino l’altra sua zia con lei s’accorda,
     E l’una, e l’altra tal maniera tenne,
     Ch’una tagliò al nipote empio, e profano
     La destra, e l’altra la sinistra mano.

E volendo abbracciar la madre irata,
     Che più de l’altre stride, e gli minaccia,
     L’una, e l’altra sua man trova troncata,
     Ne la ponno annodar le monche braccia.
     Deh dolce madre dolcemente guata,
     (Disse) e pietosa à me volgi la faccia.
     Un gran grido ella die, poi che mirollo,
     E di sua propria man troncogli il collo.