Ch’à pena in cima de l’antenna giunge,
Che si vede nel corpo entrar le braccia,
E l’una gamba à l’altra si congiunge,
E cade al fin nel mar con nova faccia.
Mirò intanto il Toscan, che non m’è lunge,
E quella man nel corpo se gli caccia,
Che mi percosse, e v’entra insino à l’ugna,
E sicuro mi fa da le sue pugna.
Dal banco, dove Ofelte al remo siede,
Pensa levarsi per saltar ne l’onda,
E quando vuole alzare il destro piede
Per porlo sopra l’infrondata sponda,
Unito, e giunto al piè sinistro il vede,
Gli manca un piè, ne sa dove s’asconda,
Coda esser vede la sua parte estrema
A guisa d’una Luna quando è scema.
Libi volendo dir, che gli era appresso,
Chi t’ha tolto il tuo piè? dove s’asconde?
Vede aguzzar de la sua bocca il fesso,
E sente, che’l parlar non gli risponde,
S’ascolta, et ode un suon muto, e dimesso,
Che la pronuncia ogn’hor più gli confonde,
Il naso poi (mentre ei doler si vole)
Cresce, e la bocca asconde, e le parole.
Gridar volendo anchora Alcimedonte,
Oime, voi vi cangiate, ò strano caso,
Sente di dura squama armar la fronte,
E ’l suo parlar coprir da novo naso.
Ma, che bisogna più, ch’io vi racconte?
Di venti io solo Acete, era huom rimaso,
E temeva anchor’io, che ’l mio destino
Non mi facesse diventar Delfino.
Dapoi, che tutti trasformati foro,
E fur per tutto il mar divisi, e sparsi,
Io temendo, e l’andar mirando, e loro,
Hor sorger gli vedeva, et hor tuffarsi,
E mi faceano intorno al legno un choro,
Ne sapean dal secco albero scostarsi,
E lascivi vedeansi diportare,
E ’l lor naso innaffiar col mare il mare.
E per quel, che da molti ho poi sentito,
Incontran lieti hor questo, hor quel naviglio,
E se veggono un legno in mar sdruscito
Cercan gli huomini trar fuor di periglio,
E su ’l lor dorso quei portano al lito:
Ma d’una cosa più mi maraviglio,
Ch’amano anchor, se veggono un fanciullo,
Goder del fanciullesco lor trastullo.
Stupido io stavo, timido, e tremante,
Colmo di maraviglia, e di paura,
Quando quel Dio mi si fe allegro avante,
E disse, non temer, ma prendi cura,
Ch’io possa sopra Dia fermar le piante,
E così à pena alquanto m’assicura,
Snodo le vele senza hedera al vento,
E guido Bacco à Dia lieto, e contento.
E s’haveste signor veduto voi
Ogni huomo in quel navilio trasformato,
Ch’io seguitassi i sacri riti suoi,
Non vi sareste sì maravigliato
Volea contar’anchor come, dapoi
L’havea per tutto, e sempre seguitato,
E quel, che in ogni parte gl’intervenne,
Fin che con Bacco à Thebe se ne venne:
Ma Penteo, havendo anchor ferma credenza,
Che torgli il regno il suo cugino agogni,
Disse, habbiam dato troppo grata udienza
A queste nove sue favole, e sogni.
Pensando forse in me trovar clemenza,
M’ha detto i suoi travagli, e i suoi bisogni,
Pensò tardando in me l’ira placare
Col novellar del suo finto parlare,
Prendetel tosto, e co i maggior tormenti,
Che dar sapete, fatelo morire.
E fu subito preso, e da i sergenti
Posto in prigion da non poterne uscire.
Hor mentre stecchi, e dadi, e fochi ardenti
Preparano i ministri al suo martire,
Da se si ruppe una catena forte,
Ond’era avinto, e se gli aprir le porte.