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terzo. 47

Ch’à pena in cima de l’antenna giunge,
     Che si vede nel corpo entrar le braccia,
     E l’una gamba à l’altra si congiunge,
     E cade al fin nel mar con nova faccia.
     Mirò intanto il Toscan, che non m’è lunge,
     E quella man nel corpo se gli caccia,
     Che mi percosse, e v’entra insino à l’ugna,
     E sicuro mi fa da le sue pugna.

Dal banco, dove Ofelte al remo siede,
     Pensa levarsi per saltar ne l’onda,
     E quando vuole alzare il destro piede
     Per porlo sopra l’infrondata sponda,
     Unito, e giunto al piè sinistro il vede,
     Gli manca un piè, ne sa dove s’asconda,
     Coda esser vede la sua parte estrema
     A guisa d’una Luna quando è scema.

Libi volendo dir, che gli era appresso,
     Chi t’ha tolto il tuo piè? dove s’asconde?
     Vede aguzzar de la sua bocca il fesso,
     E sente, che’l parlar non gli risponde,
     S’ascolta, et ode un suon muto, e dimesso,
     Che la pronuncia ogn’hor più gli confonde,
     Il naso poi (mentre ei doler si vole)
     Cresce, e la bocca asconde, e le parole.

Gridar volendo anchora Alcimedonte,
     Oime, voi vi cangiate, ò strano caso,
     Sente di dura squama armar la fronte,
     E ’l suo parlar coprir da novo naso.
     Ma, che bisogna più, ch’io vi racconte?
     Di venti io solo Acete, era huom rimaso,
     E temeva anchor’io, che ’l mio destino
     Non mi facesse diventar Delfino.

Dapoi, che tutti trasformati foro,
     E fur per tutto il mar divisi, e sparsi,
     Io temendo, e l’andar mirando, e loro,
     Hor sorger gli vedeva, et hor tuffarsi,
     E mi faceano intorno al legno un choro,
     Ne sapean dal secco albero scostarsi,
     E lascivi vedeansi diportare,
     E ’l lor naso innaffiar col mare il mare.

E per quel, che da molti ho poi sentito,
     Incontran lieti hor questo, hor quel naviglio,
     E se veggono un legno in mar sdruscito
     Cercan gli huomini trar fuor di periglio,
     E su ’l lor dorso quei portano al lito:
     Ma d’una cosa più mi maraviglio,
     Ch’amano anchor, se veggono un fanciullo,
     Goder del fanciullesco lor trastullo.

Stupido io stavo, timido, e tremante,
     Colmo di maraviglia, e di paura,
     Quando quel Dio mi si fe allegro avante,
     E disse, non temer, ma prendi cura,
     Ch’io possa sopra Dia fermar le piante,
     E così à pena alquanto m’assicura,
     Snodo le vele senza hedera al vento,
     E guido Bacco à Dia lieto, e contento.

E s’haveste signor veduto voi
     Ogni huomo in quel navilio trasformato,
     Ch’io seguitassi i sacri riti suoi,
     Non vi sareste sì maravigliato
     Volea contar’anchor come, dapoi
     L’havea per tutto, e sempre seguitato,
     E quel, che in ogni parte gl’intervenne,
     Fin che con Bacco à Thebe se ne venne:

Ma Penteo, havendo anchor ferma credenza,
     Che torgli il regno il suo cugino agogni,
     Disse, habbiam dato troppo grata udienza
     A queste nove sue favole, e sogni.
     Pensando forse in me trovar clemenza,
     M’ha detto i suoi travagli, e i suoi bisogni,
     Pensò tardando in me l’ira placare
     Col novellar del suo finto parlare,

Prendetel tosto, e co i maggior tormenti,
     Che dar sapete, fatelo morire.
     E fu subito preso, e da i sergenti
     Posto in prigion da non poterne uscire.
     Hor mentre stecchi, e dadi, e fochi ardenti
     Preparano i ministri al suo martire,
     Da se si ruppe una catena forte,
     Ond’era avinto, e se gli aprir le porte.