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Penteo sdegnato più, che fosse mai,
     Rivolse gli occhi à lui turbato, et empio,
     E disse, ò tu, ch’al fermo à morir hai,
     Tu, ch’ al fermo hai da dar agli altri essempio,
     Dì il tuo nome, e la patria, e quel che fai,
     Di cui nascesti, e perchè vuoi nel Tempio
     Porre un mortal fra le divine cose?
     Et ei senza timor così rispose.

Mio nome è Acete, e del popol Tirreno
     À Meonia mi dier bassi parenti,
     Ch’oro non mi lasciar, ne men terreno,
     Ne lanigeri greggi, ò grossi armenti.
     Quando il mio pover padre venne meno,
     Ch’andò à trovar le trapassate genti,
     Altro non mi potè del suo lasciare,
     Ch’un’ hamo, et una canna da pescare.

C’hebbe del mondo anch’ei sì poca parte,
     Che col pescar si sostenea la vita.
     Le rendite, c’haveva, eran quell’arte.
     E disse quando fe da noi partita,
     Altro non posso herede mio lasciarte
     Che questo e l’hamo, e la canna m’addita.
     Altro da me non s’ ha, ne si possede,
     E te ne facciò volentieri herede.

Mi lasciò l’acqua anchor, si ch’io n’havessi
     In tutto il tempo de la vita mia
     Da bere, e da pescar quant’ io volessi,
     À par di qual si voglia huomo, che sia.
     L’hamo, e la canna mi mancaro anch’essi,
     Ch’ un giorno un fiume me gli portò via.
     Tal, che sol l’acqua, perche vive eterna,
     Posso chiamare heredità paterna.

Ond’ io, che da vil animo tenea
     D’essercitar novo hamo, e nova canna,
     Conoscer volli la Capra Amaltea,
     Arturo, et la corona d’Arianna,
     Quale stella è benigna, e quale è rea,
     Qual rasserena il cielo, e qual l’appanna,
     De i venti, ove Favonio, ov’ Euro alberga,
     Qual sia destro al nocchier, qual il sommerga.

Così l’arte sottil del navigare
     Appresi, e corsi io u’ ho tanti perigli
     Ch’era meglio per me starmi à pescare,
     Con la povera mia, consorte, e figli.
     Hor quel, che sì gran Dio fammi adorare,
     Onde tanto tu sol ti maravigli,
     Un gran miracol’ è, ch’egli fatt’have
     Innanzi à gli occhi miei ne la mia Nave.

Havendo una mattina il legno sciolto
     Da Smirna per andar insino à Delo,
     La sera io veggo un nembo oscuro, e folto,
     Che mi nasconde d’ogni intorno il cielo:
     À l’ isola di Scio l’animo volto,
     Non mi fidando in quello ombroso velo,
     E lego il laccio in arena sicura,
     Fin ch’ un giorno più lieto m’assicura.

Poi come la fanciulla di Titone
     Discopre à noi le sue ghirlande nove,
     E sopra i frutti di quella stagione
     Per ben nutrirgli la ruggiada piove,
     E chiama à gli essercitij le persone,
     Altre al remo, altre al rastro, et altre altrove,
     Mi levo, e ’l ciel riguardo d’ogni intorno,
     Come prometta à noi propitio il giorno.

Vedendo il ciel, che mi fa certo segno,
     C’havrem propitio il vento, e chiaro il raggio
     D’Apollo, io chiamo i compagni su’l legno
     Per voler seguitare il mio viaggio,
     Ecco mena un fanciullo illustre, e degno
     Ofelte, un de’ compagni, che meco haggio,
     E m’accenna con l’occhio, e vuol, ch’io ’l veda,
     E che gli approvi così nobil preda.

Mi dice pian, ch’in un campo deserto
     Sol ritrovollo, e che ’l vuol menar via.
     Come in lui fermo l’occhio, io tengo certo,
     Ch’un divin Nume in quel fanciullo sia.
     Quanto più ’l miro, più palese, e aperto
     M’appar de la celeste monarchia.
     E dissi loro, Un divin Nume il credo,
     Gli è certo un divin Nume à quel, ch’io vedo.