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Penteo di farsi Imperator credea
     Morto, che fosse il vecchio avo materno,
     Che figli maschi Cadmo non havea,
     E già quasi egli havea preso il governo.
     Atteon, che concorrer vi potea,
     Già passato era al regno de l’ Inferno,
     Havea ben due cugini, et ambedui
     Nel regno pretendean non men di lui.

Questi eran figli d’Ino, e d’Atamante,
     Ma Penteo nulla, ò poco gli stimava,
     Perch’era l’uno, e l’altro anchora infante,
     Et egli il popol già tiranneggiava:
     Hor quando farsi tante feste, e tante
     Vide à quel suo cugin, che ritornava,
     Che fu di Giove in Semele concetto,
     Prese dentro da se qualche sospetto.

Gli cadde à un tratto ne la fantasia,
     Che questo suo cugin quivi venisse
     Per aspirare à quella monarchia
     Tosto, che ’l vecchio Imperator morisse.
     Questo sospetto, e questa gelosia
     Nel capo facilmente se gli fisse.
     E tanto più, che tutto ’l popol vede,
     Che fa sì gran trionfo, e gli ha tal fede.

E di superbia pien, di sdegno, e d’ira
     Rivolse al popol trionfante gli occhi,
     Ahi, che furor la mente si v’aggira,
     Che diate fede à questi giuochi sciocchi?
     Che cosa sì fuor del dover vi tira,
     Che par, che l’honor vostro non vi tocchi?
     Vi pare atto di voi preclaro, e degno,
     C’habbia un fanciullo inerme à torci il regno.

può tanto un corno in voi, tanto un percosso
     Vaso, che fa sonar ferro, ò metallo,
     O ’l suon, che rende un cavo, e lungo bosso,
     Che faccia farvi un sì notabil fallo,
     Ch’à voi, che più d’un campo esperto, e grosso
     Di gente eletta à piede, et à cavallo
     Non sbigottì, di donne un gran romore,
     Che dal vin nasce, dia tanto terrore.

Ahi, come indegna prole del serpente
     Dicato à Marte chiamar vi potete,
     Dapoi, che voi cedete à sì vil gente,
     Obscena, e molle, come voi vedete.
     Hor da voi vecchi Tiri si consente,
     Che con tanto sudore, e spesa havete
     Dal fondamento fatta questa terra,
     Che vi sia presa, e tolta senza guerra?

À voi di più robusta, e verde etade,
     Che seguite lo stuol canuto, e bianco,
     Meglio staria, che lance, e scudi, e spade
     Le man v’ armasser, la persona, e ’l fianco.
     Quel pampino su l’hasta indegnitade
     Porta al vostro valore, e l’habito anco,
     E con più honor la vostra chioma asconde
     Un coperchio di ferro, che di fronde.

Vi prego ricordatevi fratelli
     Di che chiara progenie siete nati.
     Se vi rimembra, voi siete pur quelli
     Dal serpente di Marte generati.
     Perche i suoi fonti cristallini, e belli
     Mondi, et intatti fosser conservati,
     Ei morir volle: hor tu popol suo figlio
     Vinci per l’honor tuo senza periglio.

Ch’egli hebbe l’inimico acerbo, e forte,
     Ma tu, vecchi, fanciulli, e feminelle.
     Ei, fuor ch’ad uno, à tutti diè la morte;
     Voi, che farete à questa gente imbelle?
     Vorrei, che se volesse l’empia sorte,
     E le nostre nemiche, e crude stelle,
     Che perdessimo il regno, e questo loco,
     Ce ’l togliesse la forza, ò l’arme, ò ’l foco.

Ch’almeno il destin nostro iniquo, e fello
     Pianger potria ciascun senza rossore,
     Ne imputato potrebbe esser d’havello
     Perduto ò per viltade, ò per errore.
     Hor quì sarà venuto un giovincello,
     Un molle, effeminato, e senza core,
     Che veste ostro, e profumi in vece d’armi,
     E Thebe ci torrà, per quel, che parmi.