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136 parte prima


Oltre il raparsi usano il pianto, che è in aria di monotona inespressiva cantilena, che pare convenzionale, accompagnata dal suono del pimpin, che è, come credo di aver detto altra volta, un mortaio scavato, con istrumenti o col fuoco, in un tronco, con acqua dentro e coperto d’una pelle stirata come in un tamburo. Su questa pelle battono colpi con una zucca vuota, nella quale hanno introdotto grani di maiz o noccioli di algarroba.

Il pianto in comune lo fanno in ore consuete, ma la vedova o la madre piange quasi sempre, ed anche mentre cammina fuori di strada per le sue faccende. Il morto è accompagnato alla sepoltura dai parenti e dagli amici, e, se è un cacicche amato o qualche stregone reputato, da tutta la tribù.

I cacicchi, e sopratutto gli stregoni bravi, hanno sempre una bella posizione tra gli ahót che li aspettano, presso i quali maggiore sarà la loro influenza quanto maggiore sarà stata la considerazione goduta tra i loro vicini e dimostrata all’atto della cerimonia funebre. E quando muore uno di essi, gli Indiani riuniti intorno al suo giaciglio, gli chiedono che laggiù tra gli ahót s’interponga, perchè l’ahót della tormenta, e quello della peste, o l’altro della carestia risparmii i loro toldi e visiti quelli dei loro nemici. E il moribondo glielo promette, e in compenso i suoi concittadini onorano i suoi funerali e aumentano così l’autorità benefica del morto presso gli ahót.

E che mai noi chiediamo ai nostri morti in odore di santità, sennonchè si facciano intercessori appo il Cielo a prò di noi altri pellegrini in questa valle di lacrime?

Il dolore riunisce gli uomini, e l’armonia del carattere umano, nei suoi atti e nei suoi detti, nelle sue speranze e nei suoi timori, non si rivela mai così splendidamente tra tutte le genti come dinanzi ai sepolcri!