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262 la tempesta.

Di te, soccorsa, ti ficcò nel fesso
D’un abete, e rinchiuso in quell’angusta,
Dolorosa prigion, per dodici anni
Torturato ti sei. Morì la strega
Lasciandoti confitto in quella pianta,
D’onde il gemito tuo, qual se la ruota
D’un mulin lo mandasse, il ciel ferìa
Senza posa. In quel tempo, e fin che il parto
Deponesse colei (schifoso e degno
Parto di strega) da vestigio umano
Segnata ancor quest’isola non era.

                        ariele.
Sì, Calibano, figlio suo.

                       prospero.
                                   Gli è quello
Ch’io dico, o capo scemo. Egli! suo figlio
Calibàno or mio servo. In quali strette
Eri allor ti sovvien? Faceano il lupo
Della selva ulular le disperate
Tue grida, e penetravano nel core
Fin dell’orse feroci. Era uno strazio
Per anime dannate, e Sicorace,
Pur volendo, impossente a liberarti
Stata saria. Quand’io qui posi il piede
E ti udii, l’incantato albero apersi
Coll’arte che posseggo, e fuor ti trassi.

                        ariele.
Gran mercè, Signor mio!

                       prospero.
                                      Se più borbotti