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Dei tre traduttori è chiaro che solo il rumeno rende col pensiero anche la frase dell’Alfieri. Il Κρατερός, poco curandosi del punto e virgola dopo core, interpreta come se l’Alfieri avesse scritto: „piansi, ma, nel mio cuore, tenni come legge inviolabile la sua volontà”; il Trognon inserisce un ce fut che guasta ogni cosa. Peggio ancora: le parole che seguono: ...„quanto — Io del tacer, dell’obbedir fremessi, — Chi ’l può saper com’io?”, forse per colpa dell’iperbato, diventa nella traduzione greca un banalissimo: ἐγώ τὸ ἠξεύρω, πόσον ἐφρύαττον σιωπῶν καὶ ὑπακούων, mentre in quella francese del Trognon son barbaramente spezzate da un punto ammirativo che c’entra come il cavolo a merenda e che il povero Alfieri non si sognò nè mai si sarebbe sognato di metterci.
Il traduttore rumeno invece intende bene e l’uno e l’altro passo, e, se non rispetta l’iperbato, gli è solo perchè, in buona prosa rumena, l’uso dell’iperbato è proibito più delle pistole corte.
Nella dedicatoria si dà lode al Bibescu di esser sempre stato fra i primi a incoraggiare ogni specie di lodevoli iniziative specie nel campo della nascente letteratura rumena; sicchè l’autore, „essendo partecipe di questi favori”, sente l’obbligo di offrire a lui prima che ad ogni altro le due tragedie „intitolate: Filippo e Oreste, che ha liberamente tradotte dall’italiano, in cui furono scritte dal defunto Conte Alfieri, principe de’ tragici italiani”.
Riportiamo qui per agevolare il lettore nei confronti e dargli il mezzo di controllare le nostre opinioni la medesima II Scena dell’Atto I, di cui abbiamo già a suo tempo riportato la versione greca del Κρατερός:
Izabela.
Și ce?
Carol.
Supus și fiu al unui Domnu absolut, suferiiu, tăcuiu, plânseiu, dar în inima; voința luĭ fu lege la a mea voința; el îți fu soț; și cine poate ști, ca mine, câtă turburare, ce răscoală au adus în pieptu ’mĭ tăcerea și supunerea? De o asemenea virtute, și virtute erà, ba încă maĭ presus de orĭ ce silință omenească) mă făleam în sinemĭ, de și mă întristam intr’aceiaș vreme. Orĭ ce datorie serioasă stă totdeauna înaintea ochilor mieĭ, și de mă voiu fi învinovățit, măcar cu cugetul, o cunoaște cerul, care vede cele maĭ din lăuntru gândurĭ: zilele în lacrămi, lungile nopțĭ iarăș în lacrămĭ le petreceam: ce folos? ura creștea în inima părintelul, pre cât durerea într’a mea.
(Op. cit., p. 13).