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dell’intento che lo splendore della forma. Del resto Asaki, non solo riconosce l’enorme difficoltà dell’impresa con tanto coraggio affrontata da Aristia, ma, e nel tono sereno e garbato dell’articolo, e nelle lodi che pur rivolge al traduttore, mostra abbastanza chiaramente di stimarne l’ingegno e d’ammirare l’altissimo fine artistico che si proponeva raggiungere.

Riassumo brevemente l’articolo di Asaki, citando delle sue parole solo quanto mi sembra necessario a mettere il lettore in grado di convincersi, che proprio a lui intende alludere Aristia nella prefazione aggiunta alla sua traduzione della Virginia e del Saul.

Asaki dunque comincia col rilevare, come dopo un lungo intermezzo (1836-38), durante il quale, l’abbiam visto, non s’erano rappresentate che opere in francese; finalmente, il 16 settembre 1839, la lingua rumena fosse tornata a partecipar degli onori del palcoscenico con gran soddisfazione di quanti s’interessavano alle sorti del teatro nazionale. Dopo un breve giudizio intorno alla tragedia alfieriana divenuta ormai la bandiera di combattimento dei patrioti rumeni, — non mi pare indifferente che le rappresentazioni in lingua rumena cessate col Saul il 1836, fossero col medesimo Saul riprese a Iași tre anni dopo —, Asaki passa ad occuparsi della traduzione di Aristia, della difficoltà che presentava, di come Aristia le abbia superate, del metro prescelto, che gli sembra confarsi poco all’indole della versificazione rumena. Ecco le sue parole: „Ora, poi che la poesia di Alfieri è tanto sublime, adorna ed eccellente, senza paragone, direi, nella lingua italiana; alquanto difficile è dovuto riuscire al traduttore rumeno il cercar di produrre i medesimi effetti che l’autore (italiano) si riprometteva di produrre. Non crediamo che il problema sarebbe stato impossibile a risolvere, se alle difficoltà dell’originale il sig. traduttore, pieno di buona volontà, non ne avesse aggiunte delle altre, accingendosi alla fatica assolutamente erculea di tradurre il testo (anzi le sillabe) della tragedia alfieriana dal verso italiano in quello rumeno“. Il primo appunto di Asaki è dunque che Aristia, quasi non gli bastassero le difficoltà gravissime che gli offriva il testo alfieriano, avesse voluto accrescerle, proponendosi una fedeltà eccessiva. Non occorre dire che di ciò noi gli facciamo un merito. Ognuno sa come il serbar certe particolarità metriche giovi nelle traduzioni poe-