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nerale romano e primo colonizzatore della Dacia. Sarà vero? Gli uni sostengono, gli altri negano l’etimologia piccolominiana. Qualcuno, tirando l’acqua al mulino politico polacco, non riconosce neppure l’origine latina dei Rumeni e li considera slavi puro sangue come i Bulgari, coi quali formarono un tempo un solo impero. Dalla polemica che ne deriva, due boiardi moldavi, che da qualche tempo vivono in Polonia, apprendono, o semplicemente si conferman nell’idea già loro balenata più volte, d’esser figli di Roma. I due boiardi diventano subito due storici, i due primi storici del popolo rumeno, al quale annunziano, raggianti in volto di sublime alterezza, la buona novella che gli echi dei Carpazii, invisibili araldi dell’avvenire, diffondon giù nelle valli:

    Daciam, populi Romani provinciam, Getarum regionem, una cum Pannoniis inundassent; colonias tamen, legionesque romanas non potuerunt interire. Inter Barbaros obrutae, Romanam tandem linguam redolere videntur; et ne omnino eam deserant, ita reluctantur, ut non tantum pro vitae, quantum pro linguae incolumitate certasse videantur. Quis enim assiduas Sarmatorum inundationes et Gothorum, item Unnorum, Vandadorum et Gepidarum eruptiones, Germanorum excursus, et Longobardorum, si bene supputarit, non vehementer admiretur, servata adhuc inter Dacos et Getas Romanae linguae vestigia?” op. cit., p. 530, Decadis III, Liber X. Qui è assai bene caratterizzata la tenacità colla quale i Rumeni d’ogni parte difendono la loro lingua dagli attacchi nemici. Pare che in ogni contadino ci sia la coscienza, che, una volta perduta la lingua, anche lui è condannato a sparire. Bisogna sentire con quale accento di desolazione i rumeni dell’Istria e di Albania constatano il lento disparire della loro lingua. In un appello scritto in italiano alla Dieta istriana, i rumeni di Jeianc, Susnevizza, Birdo, Lelai, Globnico, Villanova, Gradine e Jesenovici richiaman l’attenzione dei governanti su di „un popolo pacifico e onesto che di giorno in giorno va perdendo il più sacro contrassegno: la lingua e la nazionalità”. Cfr. Teodor T. Burada, O călătorie în satele româneşti din Istria, Iași, Tip. Națională, 1896, p. 71. E persone degne di ogni fede mi han ripetuto frasi di questo genere: „Ni pierdem limba, dominule! Ni-i dor de limba noastrà”, pronunziate con infinita tristezza da rumeni dell’Istria e di Albania! Sull’origine del nome „Valachi” il Bonfinio non è però d’accordo col Piccolomini e la fa derivare ἀπὸ τοῦ βάλλειν ovvero dal nome d’una figliuola dell’Imperatore Diocleziano che andò sposa ad uno dei Principi della Dacia. Trascrivo per intero il passo clic riguarda i Valachii, visto che è una delle più antiche testimonianze della latinità dei rumeni e vale a confermar la nostra opinione che la scoperta di questo popolo romanzo sia dovuto al Rinascimento, senza del quale probabilmente nè i Rumeni avrebbero mai saputo d’esser d’origine romana, nè, ignorandolo, sarebbero riusciti a difendere la loro personalità etnica: „Valachi enim, e Romanis oriundi, quod eorum lingua adhuc fatetur, quam inter talli varias Barbarorum gentes vita adhuc extirpari non potuerit, ulteriorem Istri piagam, quam Duci ac Getae. quondam incoluere, liabitarunt; nam citeriorem Bul-