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Caro Federico,


non c’è biglietto d’ingresso per la Gheenna mercantile nè, del resto, pedaggio per il paese della libertà. Il dubbio è l’altra faccia del sospetto: "che la mano destra non sappia cosa fa la sinistra".
Ma a me, abitante della "bassa", se non proprio di quella pianura che tu evochi, non costa niente confessare che mi piacciono le tue opere, anche perchè mi piace come scrivi, e come parli: anch’io sono attratto irresistibilmente da cielo e spiagge.
Permettermi di entrare pesantemente in argomento: se è vero che l’arte è paragonabile a quel pezzo di gomma che ti ritrovi ancora sul tavolo dello studio, è che per il fatto stesso di star lì, impassibile, non per questo è meno significante, serve eccome, non fosse altro che a indurti in lapsus tra pallina e cilindretto. È così del resto che il silenzio passa letteralmente tra le parole, come lo spazio. Allora sono d’accordissimo che da sentire non è un impossibile silenzio reale, così come che è invece lo spazio ad essere realissimo, lì davanti. Il silenzio è per sentire l’essenziale del rumore degli uomini: così va il mondo (che per un attimo ho temuto fosse finito, per colpa della vita pesante, giù per il buco). E lo spazio è giustamente per lasciar fuori il resto: cioè l’asteroide, dunque, da cui siamo venuti, ma anche i professori, quelli che sparano all’Uccello.
Il silenzio è ascolto e lo spazio abitare, vero? Non per niente sei architetto di formazione e grande appassionato di musica, e contemporanea perfino. (Ho sempre pensato che nelle tue installazioni scorra della musica, che le opere si rimandino l’un l’altra quella vibrazione che dà forma al vuoto, e che è l’altra faccia di quell’energia passata che tiene le cose in equilibrio precario, in attesa, in ascolto: musica delle fessure, scultura come cassa armonica).
Il silenzio è quello dei bambini e dei figli, sì, la verità, mentre degli uomini è il rumore, gli uomini dopo, quelli che non possono più tornare indietro, quelli che non possono far altro che evitare l’arguzia degli altri. Ottima definizione dell’artista: non c’è niente da fare, gli artisti sono proprio così. E tu?
Le tue opere: il riparo per la memoria sembra fare il paio esatto con quel Carcere d’invenzione, titolo della tua più recente esposizione, dove, rovesciando, come affermi, il significato letterale del titolo di Piranesi, dici al tempo stesso che l’invenzione è un carcere che il resto non si possono inventare che carceri, ritrovando così il senso di Piranesi, oltrechè il senso tout court, uscito allo scoperto.
A scoprirlo è il tempo, nella forma della memoria. Certo, ricordo il bastone inciso nella parete, di tuo padre - quindi di nuovo padri e figli - ma anche la memoria dell’energia, passata anche in questo senso, dopo. Allora l’opera chiede di fare il percorso al contrario: traccia del tempo che si involve nell’attimo prima dei segni dei tuoi "disegni" (o tagliatelle come le chiami tu); e dispiegamento nel tempo della scoperta, del farsi guardare, del cambiare occhiali, memoria come tempo interno all’oggetto, che si mostra in quelle simulazioni con candele che fingono piano piano.
(Questo piano piano - due volte, in tre tempi - è forse il tempo di quell’altra verità, quella del rumore degli uomini, quella che passa attraverso le azioni e le parole della "gente", quella che sembra ripetere sempre le stesse cose, le più sbagliate secondo alcuni, le più atroci talvolta, eppure ha ragione, perchè anche questo è silenzio, vero caro vecchio Franz?)
In attesa della tua, un caro saluto


Elio
Fara d’Adda, 5 dicembre 1990


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