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si scavavano in un color di cenere, e negli occhi vitrei s’irrigidiva già la fissazione spaventata dell’invisibile.
Egli non aveva voluto ancora i sacramenti, credendosi sempre in tempo per riceverli, ma una mattina alle otto mandò egli stesso la sorella a chiamare il parroco don Costantino; si confessò, si comunicò piamente, piangendo qualche lagrima silenziosa, l’ultima ribellione della sua vita conculcata di professore, e si mise un crocifisso sul lenzuolo. Quando Giannino arrivò colle Giornate in mano per chiedergli il Sommario della storia d’Italia di Cesare Balbo, la fisonomia del vecchio prete era quasi serena. L’uomo cessando di lottare aveva cessato di soffrire. In quell’ombra della stanza, ammorbata dall’acre odore del decrepito materasso e delle povere lenzuola, fra le quali moriva, la sua grossa testa bianca pareva dentro un’aureola.
La sorella seduta presso la finestra taceva.
Giannino si sentì prendere da un sudore freddo, l’altro non mosse la testa, poi chiuse gli occhi. Il suo respiro era affannoso, gorgogliante di catarro.
Il ragazzo attese nel mezzo della stanza qualche minuto, quindi si accostò alla sorella, ma questa gli fece capire tutto con un gesto. Anche la sua faccia pareva impietrita.
Era la morte nella maestà senza nome del proprio mistero, senza lagrime, senza parole: nessuna commedia umana vi si agitava intorno. Egli non pensò più, tutto quanto sapeva e credeva gli dileguò improvvisamente dallo spirito, mentre i suoi occhi atoni vedevano senza guardare, e il rantolo del malato si abbassava lentamente.
Questi ebbe ancora un gemito.
Allora la sorella, adagio, venne col grembiule