Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
padre Secchi, la maggior gloria dei Gesuiti, non è che un piccolo continuatore di Galileo.
Quando il ragazzo fu nella strada, si accorse di piangere. Quella sera non gli era accaduto nulla di speciale, eppure si sentiva invaso da un sentimento così scorato della morte che ne singhiozzava, come se fosse imminente anche per lui. Tutto gli era andato male: sul finire dell’altr’anno, essendosi ammalato, non aveva potuto dare che la metà degli esami e con esito quasi infelice; era passato a stento nella filosofia e nella fisica, ma per cadere miserevolmente nella matematica, appunto la materia, nella quale si sentiva più forte. Quindi rabbuffi dai professori, un’altra severa ammonizione dal vescovo, che vedeva in questo le conseguenze di una vita troppo libera fuori del seminario, male parole a casa, perchè un anno perduto vi rappresentava un più lungo sacrificio di quei dieci franchi al mese, scherni dai compagni per la sua incapacità a diventare prete, il più facile fra tutti i mestieri. Ogni speranza di entrare nel seminario svaniva per sempre. Egli resistette, studiò tutte le vacanze con maggiore accanimento, ma negli esami di riparazione lo colse la solita timidezza, e per poco non vi fallì daccapo. Allora non lottò più. L’inguaribile avvilimento dei poveri, che si rassegnano anticipatamente a sopportare tutto, lo colse come una malattia in quella giovinezza ancora così aperta a tutte le speranze della vita; al pari di sua madre morta tisica a venticinque anni, e di don Riva, che agonizzava a settanta nel più triste abbandono, egli sarebbe sempre una vittima. Già fino a quel giorno non aveva mangiato una sola volta tanto da cavarsi la fame; i suoi vestiti erano cenci di elemosina, nessuno lo amava neppure nella propria casa, ove rappresentava una speculazione fallita.