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— Sì, è veramente bello! — esclamò la donnina con uno scoppio di orgoglio infantile.
Alle cinque e mezzo Lelio in marsina e cravatta bianca entrava trionfalmente nel salotto della principessa, perchè a casa aveva trovato un invito per la festa da ballo.
La principessa si turbò.
— Allora il pretesto non serve più. Se lo sapessero!
— Fammi vedere l’abito.
— Non vi mostro niente.
Il dibattito durò dieci minuti, ma siccome il cameriere entrava nel gabinetto per avvisare che la signora era servita, Lelio troncò ogni difficoltà col chiederle sfacciatamente d’essere invitato a pranzo, e le offerse il braccio.
Il pranzo modestissimo era mal servito: ella stava contegnosa, egli disinvolto faceva dello spirito accorgendosi di riuscirle sempre più seccante.
Perchè? Aveva ella calcolato sulla sua assenza in quella festa, o si pentiva già di compromettersi troppo con quel pranzo, sola con lui, in faccia a tutti i domestici? Allora Lelio si fece vile: conoscendo la sua debolezza per i complimenti si profuse in frasi dolci, piene di scurrili allusioni, e finì per raccontare scherzosamente tutta la storia di un amante, che la contessa Ghigi, la divina impeccabile, avrebbe finalmente trovato in un ufficiale di artiglieria. Ella non lo credeva, ma i particolari erano così minuti e scabrosi che dovette riderne per forza.
Poi tornarono un momento nel gabinetto a prendere il caffè.
Pareva ridivenuta allegra. Improvvisamente Lelio, inginocchiandosele innanzi per baciarla sulla cintura, le chiese il permesso di assistere alla sua