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la stessa passione brutale della femmina, e vi erano morti.

Da Shakspeare a Byron, da Molière a Goethe, da Heine a Garibaldi, quale triste odissea di grandi teste singhiozzanti sopra ginocchia aperte a tutto il volgo! Era sempre la stessa tragedia provocata da misteriose ed irresistibili affinità, un vizio che cresceva in un corpo e ne guastava l’anima, distruggendo quasi sempre la vita di entrambi.

Forse tutti quei grandi avevano cominciato come lui, con una sensualità o una galanteria, poi l’abitudine si era fatta forte, ed era scoppiata la frenesia di amare nello sforzo impossibile di voler essere amato; e mentre la donna, forse incolpevole a forza di essere inintelligente, seguitava a discendere nelle bassure degli amori senza nome, essi le si attaccavano alle gonne piangendo di adorazione e di vergogna.

Intanto quell’avventura diventata pubblica cominciava a nuocergli seriamente, alcuni amici insinuavano con delicata malignità ch’egli non avrebbe potuto durarvi per mancanza di danaro, altri più apertamente dicevano già che la principessa doveva avergliene dato: lo si sorvegliava nelle spese, si valutavano minuziosamente tutte le sue nuove eleganze. Al club pareva una intesa per comprometterlo con ogni sorta d’inviti.

Una volta per una partita di caccia alla volpe nella tenuta di un ricco conte, e alla quale la principessa Irma doveva partecipare con quasi tutti gli eleganti del suo circolo e molti ufficiali di cavalleria, egli cercò invano una scusa onorevole per rimanerne fuori: non aveva cavallo.

Un ufficiale con gentilezza insidiosa gliene offerse uno dei propri.

— Come! le fanno dunque paura i cavalli?