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devano come di una affettazione. Era questo in fondo il dibattito fra padre e figlio; l’uno rimproverava all’altro l’ozio letterario e di mantenersi per giunta troppo costosamente mangiandosi la dote materna.

Infatti il padre non gli aveva mai dato un soldo del proprio.

Quell’estate Lelio non seppe trovare in sè stesso la solita energia di lavoro.

Aveva concepito un grande romanzo di costumi provinciali, i soli che conoscesse davvero per esservi vissuto nel mezzo, sebbene siano forse più difficili degli altri sotto la loro omogenea apparenza. Ma un disgusto amaro di sè medesimo gli toglieva colla prontezza d’intuizione la perseveranza necessaria a tutte le imprese.

Quella donna trattata prima altezzosamente, quindi brutalmente conquistata, gli era sfuggita di mano alle prime carezze nella medesima sera della conquista, colla stessa umiltà di voluttuoso raccoglimento sotto il suo sguardo trionfatore.

Gli pareva di sentire in tutti i suoi atti una sottile canzonatura, simile a quella dei servi verso i padroni, quando arrivano a farsi imporre da questi un ordine lungamente agognato, qualche cosa d’ipocrita e di prepotente, che sbertava tutte le sue albagie di uomo e di artista.

Infatti non era ella principessa con un milione di dote e due altri milioni del marito, mentre egli non era per tutti che un piccolo borghese, così decaduto anche dal proprio nome, che non avrebbe osato premettervi il titolo nobiliare conquistato dai suoi lontani antenati?

Il suo contatto con lei era un effimero risultato di quella democrazia male definibile, che rimescola