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te senza trovare mai un solo accento, che destasse un’eco della loro vita.

Lelio Fornari invece entrò nella cucina e coll’acuta sensibilità dell’artista si mise subito all’unissono con tutti: il cuoco già brillo vi si affaccendava col reggitore ed il nonno, intanto che la balia vestita cogli abiti della domenica doveva accompagnare la contessa, che le aveva passato il braccio sotto il braccio per mostrarsi buona in faccia agli altri invitati.

Poco dopo capitò nella cucina una ragazza alta, scalza, bruna, cogli occhi ancora tutti pieni di sole, chiamata improvvisamente dal campo per girare l’arrosto.

Le due signore e il principe seduti nell’aia all’ombra dei fienili si volgevano spesso verso la cucina, dalla quale venivano sino a loro risa, fumi e profumi, colla voce del cuoco e quella di Lelio, che scherzavano colla ragazza. Questa, passata sull’aia a testa bassa per la presenza dei signori, si era tosto rimessa; il cuoco diceva qualche barzelletta in bolognese, Lelio le acuminava e la ragazza imporporata dalle fiamme del focolare, sul quale girava il lungo spiedo carico di polli e di piccioni, sembrava anche più bella. Il busto rozzo, da cui la rozza camicia bianca emergeva vivamente, le dava una apparenza fantastica, coi capelli così scarduffati, più neri nell’ombra densa del camino, e le braccia nude e gagliarde, che avrebbero potuto brandire subitamente quello spiedo come un’arma.

Lelio non aveva ancora pronunciata una sola parola d’italiano in quella cucina, movendovisi come se vi fosse sempre stato: anzi la sua disinvoltura, solleticata dalla loro famigliarità, lo aveva fatto trascendere sino a sturare una bottiglia del-