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tabile ironia nel lusingare i difetti più personali, e quindi più inconsci, di ognuno gli valsero la simpatia degli uomini. La sua stessa cortese freddezza colle signore calmò ogni apprensione.
La contessa Ghigi, bellissima, dal viso e dal corpo di statua, ma del pari massiccia nello spirito, finì di compiacersi di lui come di un ornamento acquistato al proprio salone. Egli invece vi attendeva la principessa.
La prima sera, incontrandosi, rimasero egualmente in guardia: si cantò al piano, si cenò dopo mezzanotte sui piccoli tavoli, e i cavalieri servivano le dame; non si potè fare molto spirito, si ballò, ma Lelio rimase abilmente sopra un divano col principe Giulio a parlare di caccia e del Papa. Il principe, clericale militante, riportò di lui una eccellente impressione. Dopo quindici giorni Lelio accettava dal principe l’invito per una caccia nelle valli comasche, e al ritorno trovava modo destramente di causarne un altro a pranzo.
— Avete dunque mutato teorica? — gli chiese quella sera medesima la principessa Irma nel salone della contessa Ghigi, credendo di sorprenderlo nella contemplazione estatica di quest’ultima.
Egli finse di non comprendere.
— Adesso amate la bellezza.
— La studio: la contessa è una delle donne più belle che io abbia visto. Osservate quanta finezza di disegno nell’attacco delle gote col collo, e come la sua fronte è serena; poche statue greche sono più classicamente belle, ma la contessa avrebbe sempre, anche su queste, l’incalcolabile vantaggio della pelle sul marmo. La sua ha un candore di camelia più puro ancora che nel bellissimo fiore inanime.
— Non è che una statua.