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zamente pel capo, sebbene non avesse mai posto piede in uno studio di pittore, o deciso almeno di mettersi a studiare l’arte sul serio.
Era stato molti anni garzone nella stessa bottega, resa nota dal padre e subito dopo la sua morte rivenduta dalla mamma senza nemmeno giungere ad intascarne il prezzo; ma garzone indisciplinato che perdeva le ore per strada e non aveva mai saputo tirare un filetto sopra una ruota; si fece presto cacciare. Poi morta la mamma entrò impiegato in una bottega di droghiere, ne fu espulso, mutò padrone, cangiò mestiere, sempre allegro e svogliato, finchè la vecchia arte, come egli diceva con un sorriso, lo riattirò trasformandolo in imbianchino.
Aveva trovato un eccellente amico in un compagno ed un buon principale. Per parecchio tempo lavorò tranquillo, quindi capitò un altro guaio.
Una seconda ragazza lo innamorò.
La ragazza, bella sartina, civettuola ed elegante, dichiarò che non avrebbe mai accettato per amoroso un imbianchino col berretto di carta bianca e il vestitone di rigatino turchiniccio schizzato di colori: allora egli s’improvvisò pittore di stanze ed altro, ma quantunque si vestisse meglio e parlasse sempre in italiano, tutto fu inutile: la ragazza non volle saperne. Egli rimase pittore.
Il suo primo lavoro fu la riquadratura di una bottega con un rosone nel mezzo della volta, dalla quale scendeva il lume a petrolio. Il fumo della lampada vi mise un po’ di chiaroscuro intorno, la bottega era buia e il rosone passò. In seguito dipinse qualche paesaggio sulle pareti delle bettole, molti cartelli, alcune insegne, persino dei ritratti che non somigliavano a nessuno; però il guadagno era sempre scarso, e quando il bisogno urgeva più