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to affittato in molte parti e per molti usi, a magazzini e ad appartamenti, a studio di artisti e a camere ammobigliate. Persino qualche bottega si era aperta dal di fuori fra il vano di due finestre, e i granai erano diventati laboratori. Ma il palazzo sovrastando a tutte le case della strada colla sua massa bruna e marmorea manteneva sempre lo stesso aspetto aristocratico, quantunque decaduto, col portone spalancato, i lastroni dell’atrio rotti e il cortile deserto. La gente che lo abitava vi pareva estranea: infatti passavano frettolosamente, piccini, male vestiti come si usa oggi, non ricevendo da lui e non rendendogli nulla della sua grandiosità poetica o della sua poesia melanconica.

Sul cortile, all’abbaino di una soffitta, viveva un pittore.

L’abbaino tagliato nel cornicione, sebbene grande quasi quanto una finestra ordinaria, sembrava piccolo. Quando il pittore era in casa, si vedeva spesso la sua pipa sporgere dal cornicione fumando o battendo sugli spigoli con una cadenza musicale. Allora qualche strappo di canzone cadeva nel cortile, talvolta vi cadeva pure la pipa, ma essendo di radica non si rompeva. Il pittore era giovane e solo: aveva venticinque anni, era secco come la fame e vagabondo come l’ozio: ma se possedeva cinque o sei tubetti di colore e due o tre pennelli, non aveva quasi mai lavori da compiere e mai voglia di lavorare. I suoi capelli crespi si sarebbero detti di un moro, i suoi abiti logori sembravano di un altro: solo il sorriso era suo, un sorriso largo sopra dei denti bianchissimi, che gli rischiarava il volto mostrando tutta la bontà spensierata ed affettuosa del suo animo. Così, sempre allegro nella miseria, temperava di sogni le troppe crudezze della realtà: diceva di abitare per la strada non tornando quasi