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no mai resistere, si era fatta apparecchiare una tavola nell’ultimo gabinetto presso il botteghino del caffè, malgrado il tintinnìo dei bacili e dei bicchieri, che ne usciva come da uno sbocco di officina.
Lelio a poca distanza dalla principessa in quel momento, avrebbe dato un anno della propria superba giovinezza per essere fra quegli invitati, ma tutto il suo ingegno e la sua educazione non potevano meritargli simile onore. Il conte Turolla invece, capitando in quel punto, offrì il braccio alla principessa, che lo pregò di trarle il mascherino. Egli levò prima delicatamente i due lunghi spilloni, che le fissavano lo scialle sul mazzo dei capelli, quindi tirando al disopra di questo la fettuccia elastica le liberò il viso. La principessa apparve rossa, cogli occhi gonfi, tutta in sudore: la sottile peluria delle sue gote pareva brinata.
— Oh! — esclamò scherzosamente — chissà come sono!
E si avviò la prima senza degnare Lelio Fornari nemmeno di uno sguardo.
Questa indifferenza, che qualunque altro di quel piccolo mondo aristocratico avrebbe preso per una necessità dell’etichetta, ferì profondamente l’amor proprio del giovane romanziere. Tutti gli odi malati della sua vanità proruppero come una muta di cani al primo allentare dei guinzagli dietro le orme fuggenti di una volpe. Nessuno degli eleganti invitati a quella breve cena olimpica valeva quanto lui, che senza titoli sapeva di discendere da un’antica famiglia feudale, forse con poco lustro nelle cronache, ma di un sangue più puro, se mai sangue puro potè conservarsi nelle famiglie, che quello medesimo dei Montalto. Sciaguratamente una stessa decadenza economica aveva forzato tutti i suoi parenti a destreggiarsi nelle professioni: alcuni erano ri-