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— Facciamo così: se vinco, tu mi cedi l’incarico e le porto io; così tu non metti fuori niente.
— E se perdi?
L’altro si grattò la testa.
— Va là, imbecille, l’ho trovata io: se perdi mi accompagnerai nel giro senza guadagnare nulla.
Invece perdette il conte.
Così erano passati molti anni, poi i figli uno alla volta tornarono dalla galera: il maggiore ripartì dal villaggio e andò a fare il manovale a Roma, l’altro si acconciò nel paese da stalliere presso un oste. Il conte viveva solo. Stava lassù in un solaio screpolato, quasi senza porta, col tetto troppo incline, attraverso il quale si vedevano le stelle: d’inverno la neve gli cadeva intorno al letto alta sino al ginocchio senza che egli pensasse a spazzarla, non aveva camino, e d’altronde gli sarebbe mancata la legna. Il fornaio gli riempiva gratis il caldanino di carbonella: del letto non aveva rimasto che il pagliericcio, entro il quale si cacciava tutto vestito, poi col mantello si faceva una coperta e col vecchio cappellaccio una specie di berrettone. Nei giorni di gran freddo non si alzava più; passava le lunghe ore a guardare i propri uccelli chiusi dentro un abbaino sporgente sul tetto e difeso da una rete di ferro, rifacendo forse per la milionesima volta gli stessi sogni di giuoco, di caccia o di dolciumi. Aveva pochi bisogni e meno rimorsi; se fosse ridivenuto ricco si sarebbe nuovamente rovinato.
Oramai in paese la sua miseria e le sue stravaganze si erano talmente invecchiate nell’abitudine di tutti che nessuno gli badava più. Egli tirava dritto.
Finalmente si ammalò. Un giorno la ruota di un biroccino pigliandogli il mantello lo fece cadere; parve cosa da nulla, ma non si rimise più.