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La sera giù nel villaggio, vedendolo arrivare mezzo morto dal freddo senza nemmeno un passerotto, gli davano la berta: egli tornava ad inviperirsi. Poi il governo mise una forte tassa di trentacinque lire sui paretai, di quaranta sulle reti a mano, di dieci per le panie, e proibì i lacciuoli. La nuova legge, soggetto, prima e dopo la promulgazione, di tutti i discorsi del villaggio, fu pel conte causa di nuove tragedie. Egli aveva giurato di cacciare senza nessuna licenza, ma nonostante tutti i riguardi dei carabinieri, che fingevano di non vederlo, cadde più volte in contravvenzione, e dovette scontarla con la perdita degli attrezzi e parecchi giorni di carcere. Le sue bravate al caffè, dove parlava dei carabinieri col più insultante disprezzo, li aveva costretti a catturarlo. Allora fu eroico: colle cento lire dell’organo, la sua unica rendita, comprò tutte le licenze e venne trionfante al caffè ad inveire contro quei signori che per paura della nuova tassa avevano dismessi i paretai.
— E quest’inverno? — gli chiese un bracciante che giuocava a scopa.
— Sai leggere tu?
— No.
— Io so scrivere — rispose sardonicamente, e una risata in coro gli diede ragione.
Infatti le lettere restavano sempre la sua migliore risorsa, anche quando giuocava.
Ma questa frenetica passione del giuoco, che gli aveva fatto perdere i lenzuoli, le sedie e una volta persino i tortellini di Pasqua, prima di cuocerli, a un centesimo l’uno, non riusciva oramai più a soddisfarla. I due o i cinque franchi spillati ai gonzi sfumavano tosto in dolciumi, se il gioco non era pronto: nullameno se ne rifaceva alla meglio.