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ancora un vizio ed una passione: era goloso, nauseantemente goloso di dolciumi, e pazzo per la caccia alle reti. Nei giorni migliori, quando colla vendita di qualche uccello poteva comprarsi delle paste, veniva subito nel caffè per mangiarle dinanzi alla gente con ogni sorta di lazzi e d’ingiurie contro i signori del paese, che facevano la più miserabile vita e non erano nemmeno da tanto che sapessero come lui cavarsi un capriccio.
— Perchè non le dai piuttosto ai tuoi bambini? — gli fu chiesto un giorno.
— Il bambino sono io.
Ma poi ci pensò e gli parve con un certo senso di umiliazione che la risposta fosse più vera di quanto volesse. Infatti era stata accolta da una risata significativa.
Alcuni parenti umiliati da quella sua vita di mendicante si offersero più di una volta a trovargli un impiego, ma egli rifiutava ostinatamente.
— Se lavorassi nessuno mi crederebbe più conte.
— Allora mandate almeno a bottega i ragazzi.
— Prima di tutto sono conti anche loro se lo sono io: però se ci vogliono andare, non mi oppongo.
Naturalmente i ragazzi se ne guardavano bene.
Poi venne il ’66 ed essendo allora quasi due giovanotti diventarono due garibaldini. Alla partenza, siccome in paese si era fatta una colletta per i volontari e ad essi n’era già toccata una parte, il padre li chiamò. Erano presso un’osteria.
— I tedeschi sono sempre stati nostri nemici, ma questa volta dev’essere finita per sempre: battetevi tutti da bravi — concluse dopo un lungo discorso alla presenza di molta plebaglia, che gli battè fragorosamente le mani. — E adesso beviamo.