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dia di tutto il villaggio. A notte lo assordava di risa e di canto ubbriacando per tutte le bettole quanti ne avevano voglia, ed erano molti: di giorno passava e ripassava sul selciato roccioso dell’unica strada, alto sopra la propria sedia. Così allora si chiamavano i biroccini; ma la sua sedia era dorata, dipinta di rosso, con un gran tappeto, il primo che il villaggio avesse forse visto, e che egli lasciava spenzolare fra il montatoio e una stanga a guisa di gualdrappa.
Le sedie di quel tempo, primo e massimo sintomo di ricchezza in una famiglia, somigliavano agli ultimi sedioli usati nelle corse al trotto, sostituiti poi dai sulki americani, ma erano a due posti; e siccome non avevano molle sotto la grande cassa di legno festosamente dipinta o intagliata, per ottenere una qualche elasticità portavano due stanghe smisuratamente lunghe. Così gravitando e molleggiando sulle reni del cavallo, massime nelle discese, permettevano di parlare senza troppo pericolo di mangiarsi la lingua nell’assiduo trabalzare sui ciottoli delle strade. Da alcuni paesetti montanari delle Romagne le ultime sedie hanno forse portato alla città i voti del plebiscito nel 1859: oggi nella rapida vicenda di tutte le forme nessuno le ricorda più.
La sedia del cavaliere era dunque dorata come la sua vita, chiassosa come la sua gioia, rapida come i suoi capricci, andava sovente nel fosso come la sua fortuna. Una volta fortuna e sedia vi rimasero così sbriciolate che nessuna avarizia o pietà tentò di risollevarle.
Ma prima il cavaliere aveva preso in moglie una fanciulla di eccellente famiglia diventata poi quasi illustre per due uomini politici saliti ad alte cariche nella rivoluzione. La fanciulla sedotta dalle apparenze painesche del cavaliere lo aveva