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viso un insulto di sdegno, di tristezza, di dignità amareggiata e nullameno trionfante gli fece gettare il pacco sulle bragie respingendo dispettosamente la poltrona da un lato. Le lettere arsero subito, si contorsero sotto le lingue curiose delle fiamme: qualcuna si aperse, s’involarono su pel camino per ricadere in tanti cenci minimi ed aerei. Egli aveva già ripreso il ritratto e se lo teneva dinanzi gli occhi per non vedere le fiamme: forse non vedeva nemmeno cogli occhi il ritratto, ma la sua anima non lo ammirava che meglio.
Oramai non sapeva più di avere settant’anni, nè quando avesse perduto il bambino; invece gli contava i ricci sulla fronte e mettendogli un mignolo in bocca gli diceva:
— Mordi, Nando, mordi, Nando!
E Nando, grosso e biondo come un vitellino, era lì, c’era sempre stato, ci sarebbe sempre, gli saltava sopra un ginocchio ed allungandogli le manine cogli occhi strizzati, i labbruzzi protesi, si metteva a battergli coi talloni gli stinchi strillando:
— Cavallone, cavallone!
Egli rideva, ritornava bambino, poi sollevandolo a tutta l’altezza delle proprie braccia gli domandava:
— Nandino, vuoi più bene a me o alla mamma?
Una mano lo percosse sulla spalla.
Gaspare si voltò di soprassalto rimanendo col ritratto alzato sopra la testa.
— Che cosa fai, Gaspare? — chiese Prudenza con voce intenerita, indovinando quella contemplazione.
Gaspare ebbe una scossa violenta, si scrollò, la guardò un istante cogli occhi sbarrati, parve che un lampo gli schizzasse dalle pupille, che la