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fesa. Come mai si era tanto inoltrato? Perchè l’altra glielo aveva permesso? Lelio Fornari non era ricco. Malgrado la facilità di essere accolto per la sua nascita e per la sua educazione anche nei migliori saloni del piccolo olimpo bolognese, egli non aveva davvero molte relazioni: sdegnava la piccola borghesia, quantunque affollata di belle ragazze, e temeva d’ingolfarsi in spese maggiori delle proprie risorse frequentando troppo l’alta società. Le sere, quando non lavorava, o qualche cagione improvvisa non lo traeva solitario per le vie più remote della vecchia città, le passava tutte al «Caffè delle Scienze» fra un gruppo di amici, già invidiosi della sua piccola gloria, ma con tutto l’ardore delle più nuove idee nel cervello e la gioconda virulenza della giovinezza nel sangue.
Naturalmente egli li dominava.
Lo conoscevano, o almeno credevano di conoscerlo ancora più orgoglioso che ambizioso, di un pessimismo affettato in quella sua posa di non innamorarsi e di non credere all’amore delle donne.
Egli invece ne soffriva segretamente.
Un piccolo ventaglio lo percosse sulla spalla. Egli balzò in piedi, ma la maschera dallo scialle bianco, frangiato a bellissimi ricami, passò oltre al braccio del prefetto, un omiciattolo sulla quarantina già calvo, con due fedine bionde e due gambe grottescamente arcate, che gli davano malgrado la solennità della fisonomia un’aria bizzarra di pagliaccio.
Poi la mascherina ripassò gettandogli dagli occhi verdi un rapido sguardo abbagliante.
Il circolo si era diradato intorno al caminetto.
— La conosce quella mascherina? — chiese il giovane deputato a Lelio Fornari.
— Ho appena qualche sospetto.