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febbrili verso la poltrona: si mise a guardarlo. La delicata e superba bellezza del bambino finì di atterrarlo, gli si smarrirono i sentimenti, gli si confusero le idee: Fernando non poteva essere suo. Quindi tutte le gioie e i dolori provati per lui gli ripassarono lentamente nella memoria come un corteo di funerale per un cimitero.

Gli sembrò di averlo ancora in braccio, mentre la mamma col seno slacciato li guardava tutti e due sorridendo; gli sembrò di insegnargli a camminare, di mettersi carponi perchè il piccino potesse movere i primi passi reggendoglisi con una mano ai capelli; si ricordò tutti gl’incidenti per strada, a pranzo, a letto, poi, quando il bimbo ammalò, il terrore delle notti insonni, i lamenti della creaturina che soffriva, il medico intenerito che piangeva quasi, le vicine che venivano in punta di piedi e se ne andavano singhiozzando; poi la morte, il vestitino bianco, la bara coll’angioletto, i fiori, i pianti, Prudenza che ebbe a morirne, lui mezzo morto che doveva consolare tutti e bastare a tutto. Si ricordò che di notte era andato diverse volte solo a piangere lungo le mura della città, si ricordò di tutto e in mezzo a tanto squallore di memorie, fra gli echi di questi lamenti, la figura ilare di Fernando sorrideva ancora ai suoi occhi incantati, mentre la sua vocina gli batteva a strilli sul cuore.

Perchè dunque Fernando non era suo?

Non avrebbe potuto anche esserlo?

Che cosa aveva avuto quell’uomo per soverchiarlo così in tutto?

Forse in quelle carte c’era più di una spiegazione. Si pose il ritratto sulle ginocchia e riaccostando il mazzo delle lettere agli occhiali si mise a cercare nei bolli l’ordine delle loro date. Voleva leggerle in fila per capire meglio, ma all’improv-