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Ma egli non comprendeva ancora. Tremante, ansante, portandosi istintivamente la mano agli occhiali, quasi dubitasse di leggere bene, proseguì; non v’era dubbio, quelle lettere venivano a Prudenza. A un certo punto era scritto: «perchè il nostro bambino non potrà mai chiamarsi Fernando di Steinmetz?». Gaspare ricadde sulla poltrona. La camera aveva sempre lo stesso aspetto calmo, le bragie del camino sorridevano ancora: si sentiva strozzare. Il significato di quelle lettere era così assurdo, il racconto di quel fallo sino allora ignorato così incomprensibile, che in sulle prime non arrivava ad orizzontarsi. Sussulti nervosi gli scrollavano il cuore, convulsioni indefinibili gli capovolgevano il cervello: poi gli si fece come una pace morta nell’anima; e si rammentò l’aneddoto dell’ufficiale al battesimo. Sicuramente era lui. Nullameno era strano. Tutta quella vita di Prudenza che egli conosceva non dava presa al minimo sospetto; le maniere di lei erano sempre state le stesse, i suoi occhi sempre calmi, sempre quieti, il suo sorriso sempre casto. Una simile avventura era dunque impossibile.

Ma allora la sua lunga esperienza del mondo gli ricordò centomila casi egualmente impossibili e veri, e rammentandosi la sua antica inferiorità di omino brutto ed insipido vicino a quella donna bella come una divinità, e che aveva sempre vissuto nella modestia della sua vita d’impiegato con una rassegnazione inalterabile quasi da essere strana per lui stesso, allibì. Quindi interpretandola più esattamente gli parve come una rassegnazione di prigioniero; ma tutti i prigionieri non erano colpevoli. Egli lo sapeva, sulle prime non osò condannare. Prudenza aveva dunque amato un altro? Quell’ufficiale, egli ricordava, aveva tutto quanto mancava a lui; era bello, nobile, ricco: naturalmente dove-