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sarlo, ma da oltre quarant’anni non aveva messo piede in una chiesa.
Ed ecco come le cose erano andate.
Una volta sotto Gregorio XVI lo avevano arrestato innocente e tenuto sei mesi in prigione: l’accusa era di politica e quindi gravissima, una relazione con alcuni giovanotti, dei quali due furono poi fucilati e tre perirono dopo lunghi anni nel bagno di Civitavecchia. L’impressione di questa tragedia, che si cacciava violentemente fra le scene modeste e volgari della sua vita, e i patimenti del carcere, l’orrore degli assassini, coi quali aveva dovuto ridere e scherzare sei mesi, le torture degli interrogatorii, le minacce lungo il processo, poi la sorveglianza oltraggiosa, che lo perseguitò anche dopo, e soprattutto il raccapriccio indicibile, indimenticabile che provò la mattina della fucilazione, quando tratto da una forza fatale volle assistervi malgrado tutte le rimostranze di Prudenza, fu tale che ne ammalò nervosamente per qualche anno. E d’allora ebbe una ripugnanza mista di odio e di spavento per tutti i preti. Infatti smise ogni pratica religiosa, sebbene Prudenza vi scorgesse con ragione il pericolo di un nuovo incarceramento.
Ma Gaspare, che non era mai stato patriota, non fu più oltre disturbato; anzi il suo parroco, a quell’epoca uno dei sanfedisti più arrabbiati, ogni qualvolta lo incontrasse, indovinando quel suo stato infermiccio di spirito lo salutava con un sorriso di compassione. Gaspare si sentiva rimescolare, e, quando il curato morì, quantunque di animo mite andò a veder passare il corteo funebre, perchè altrimenti non gli sarebbe parso di esserne sicuro. Intanto la sua vita aveva ripreso la solita andatura: era impiegato nella amministrazione di un gran signore, che facendogli pochi complimenti lo teneva