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Il veglione non era che a mezzo, e malgrado l’ampiezza di quei due saloni, si poteva appena ballare.

Nel meno vasto, tutto a stucchi e a specchi, un suonatore noleggiato, bel vecchio dal colorito rosso e dalla testa calva, suonava quasi sempre dei valtzer appena la piccola orchestra taceva nell’altro; ma la ressa delle maschere era tale che solo nel mezzo si era potuto aprire un circolo per le coppie più ballerine.

Gli ispettori del club, col nastrino azzurro all’occhiello della marsina, s’affannavano indarno a conservare l’ordine del ballo, presi anch’essi nello stordimento di tutta quella confusione educata, fra l’abbarbaglio dei colori, la stravaganza dei costumi, lo scintillìo, l’addensarsi subitaneo dei gruppi, che una parola bastava a sciogliere talvolta, mentre spesso ingrossavano come nella violenza di un tumulto. Era tutta la borghesia di Bologna, ricca, avida di piacere in quegli ultimi giorni di carnevale, e che la confidente promiscuità della maschera liberava amabilmente dalla fatica di fingere come nelle altre feste una eleganza di modi superiori alla sua vita.

Le signore più note per sfarzo erano già state riconosciute e girellavano con dietro un crocchio di ammiratori; altre, fanciulle o mogli di piccoli impiegati, camuffate alla meglio, andavano sole o s’arrestavano agli angoli, respinte da quella folla più felice, allineandosi involontariamente alle pareti come quei rimasugli ributtati dalle acque del mare senza cessa alla riva, e che vi rimangono come una indefinibile orlatura.

Poi l’onda delle maschere sboccando dalle porte dei due saloni dilagava per tutte le altre sale del club, ove alcuni vecchi solitari giuocavano ostina-