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ca non poteva essere migliore. La Grecia, che avendo aperto con Omero il proprio lungo periodo di gloria doveva chiuderlo con Teocrito in una parentesi di grandezza e di grazia, aveva già troppa storia, troppo lottato, vinto e perduto, su tutti i campi di battaglia.
Il suo pensiero era esaurito, la sua anima non aveva più la freschezza di sensazioni, quella stupefazione beata del risveglio della vita, che le aveva fatto inventare Pane prima di Apollo, il flauto innanzi alla lira. Ma nella Sicilia, sulla quale le tempeste politiche erano passate come i venti d’Africa scrollando solamente le cime degli alberi, la siringa era ancora l’istrumento più dolce, ancora durava l’accordo inalterato fra spirito e natura, mondo e pensiero. Forse le prime parole cadute nell’orecchio del poeta bambino furono un motivo di egloga modulato dalla balia: più tardi, giovinetto, era stato probabilmente giudice in più di una cantata, che riprodusse poi immortale nel verso. Partito da Siracusa per studiare nell’isola di Cos sotto Sileta, celebre poeta, vi aveva conosciuto il figlio di Tolomeo Lago; quindi, visitata Alessandria, allora centro intellettuale del mondo era stato di ritorno in patria, accolto alla corte di Gerone. Ma l’erudizione accumulata negli studi e nei viaggi non aveva indurito la fibra del suo temperamento: schietto siciliano aveva voluto apprendere dai greci i canti, non le canzoni. Così la loro decrepitezza non potè intristire la sua gioventù, mentre l’abbondanza del getto riempendogli costantemente le forme perfettissime da esse ricevute, gli tolse di cedere a quella vanità di ricercatezze, che già viziavano i suoi maestri e dovevano poi guastare tutti i suoi successori.
Laonde, ingenuo d’occhi e collo sguardo istrut-