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calpestare quei cuscini fioriti, ma se ne accorse solo alla loro morbida resistenza. Con un coraggio, del quale non si rendeva alcun conto, cacciò le mani sotto il pesante coltrone e tentò replicatamente di sollevarlo traballando volta per volta sotto il suo peso; allora un brivido gli passò dentro le ossa a questa gravità invincibile della morte, come se la sua ombra stessa, dalla quale nessuno può ritirarsi, gli fosse caduta sul capo. Tutti i terrori gli sibilarono con un guizzo vipereo alle orecchie, mentre una disperazione ancora più forte gli faceva cacciare la testa sotto la frangia d’argento per rialzare con un supremo sforzo delle spalle tutto il lembo da quel lato.

Fu un istante. Trovò brancicando due capi dell’armatura che reggeva la coperta, s’irrigidì sulla punta dei piedi, col collo teso, le braccia scricchiolanti sotto l’enorme peso, e riuscì ad appoggiarne una piega sopra quello, cui era più vicino colla testa. Allora gli si scoperse l’interno, una specie di gabbia nera in mezzo alla quale posava la cassa; febbrilmente sollevò l’altro lembo. Tutta la luce delle torce, alte dinanzi all’immagine della Madonna e intorno alla balaustra della cappella, battè nel vano pauroso traendo un baleno dal cristallo che copriva la faccia della morta. Egli si sporse col busto, arrampicandosi colle ginocchia sul basamento senza poterla ancora discernere, ma gli parve nullameno di vederla come la prima volta. Il piccolo volto bianco giaceva fra l’oro dei capelli, cogli occhi chiusi, addormentato. Soltanto le labbra erano più scure. Forse egli non vedeva nulla per la troppa obliquità dei raggi sul cristallo, ma i suoi occhi dilatati nello sforzo supremo di quella visione vi scorgevano l’immagine, che si formava dietro di loro nel suo cervello. Tecla dormiva di un